Tractatus logicus architectonicus

Appunti riflessioni, critiche, sull'architettura

Si parva licet componere magnis

Quel poco che ognuno di noi può fare per colmare il debito di riconoscenza verso i nostri maggiori; senza neppur bisogno d’essere addetto ai lavori: con la sola coscienza di cittadino del “proprio mondo” e comportandosi come tale.
Secondo i principi fondativi della civiltà di appartenenza; “lentamente” sedimentati nei secoli e patrimonio comune ineludibile ; con il “linguaggio comune” dell’architettura che funziona proprio come il linguaggio parlato: un insieme di segni conosciuti da tutti, indispensabile alla comunicazione tra membri della stessa società.


F. Lojacono : Veduta di Baida

Il lento incedere di questa architettura sembrerà a qualcuno, molti...forse, destinato ad essere eternamente distanziato dalla folla delle opportunità e delle novità presenti ma il suo ritardo si può trasformare facilmente in una vittoria di fatto: come se l’altrui rapidità non foss’altro che spaurita premura di schiavo e la propria lentezza un pieno possesso del tempo, dell’eternità .
E’ perciò possibile esaltare l’indugio , quasi fosse immobilità : solida presa di possesso dello spazio.
Mi sostengono due ragioni.
Una è la democratica superstizione che postula meriti speciali in qualsiasi opera anonima lentamente sedimentata; come se tutti insieme potessimo ciò che individualmente nessuno può.
Come se l’intelletto, flemmatico ed impassibile, operi meglio qualora non venga sorvegliato.
L’altra è la facilità a giudicare ciò che è semplice ed elementare od, infine, consueto: ci si affida alle cose minute perché non si crede nella complessità .

La storia scritta sulle pietre

Gli edifici, le città, il paesaggio costruito, l’ultima casina sparsa tra gli alberi, sono il racconto della vita di una comunità sul territorio, espresso con il linguaggio dell’architettura .
Ancora vivo ed attuale nonostante quasi un secolo di follia: il secolo breve; quello funestato da due guerre sanguinosissime, da ideologie totalizzanti, dall’individualismo portato a livelli parossistici.
Estendere, integrare, restaurare, o modificare tale racconto, riconquistarlo e ricongiungersi con la storia, è possibile solo usando la stessa lingua che ha distillato, nei millenni, le proprie lettere dell’alfabeto e i propri vocaboli; le regole grammaticali, quelle sintattiche e logiche, nella varietà e nella “proprietà” sufficiente a rappresentare e descrivere l’ambiente ( costruito e naturale) anche introducendo, quando se ne ravvisasse la necessità, modifiche e correttivi; tuttavia sempre nel senso di continuità con quanto già prodotto.


K. G. A. Graeb : Veduta della Cappella Pazzi dal Cortile di S. Croce

Continuità data in gran parte dai materiali, tecniche, dai colori, presi direttamente dall’intorno geografico, dal “territorio” che è il vero ed unico genius loci, il soggetto che “forma” tutto : uomini e pietre, lasciando tracce indelebili anche tra gli artefici tantochè un individuo, una piccola parte del tutto, estratto dal suo contesto e trasportato in uno differente, tenderà a ricostituire l’ambiente che l’ha formato .
Ciò soprattutto perché l’oggetto prodotto ( che andrà a prender posto nel territorio e ne diventerà infine parte, cultura, territorio esso stesso ) ha una vita generalmente superiore, a volte di molto, al soggetto che lo produce.
Non si dissolve con gli artefici, non cessa la propria vita per far posto ad un altro contesto.
L’edificio, la strada, la città, il paesaggio, rimane accanto alle generazioni successive, le “informa” e le condiziona, dialoga e consiglia; rappresenta e richiama le esistenze trascorse, il cammino fatto dalla comunità, senza alcuna differenza tra il viottolo segnato da siepi ed alberi ed il complicato edificio nel cuore della città.


A. Inganni : Veduta della piazza del Duomo Particolare

La slow architecture non è quindi un’invenzione, un marchio commerciale o un’idea rivoluzionaria: c’è sempre stata e la si può agevolmente osservare aprendo la finestra od allontanandosi dalle periferie che assediano le città.
Come ingrediente fondamentale ha la prudenza : che si addice alle cose importanti ed impegnative della vita; la riflessione, lo slow thinking.
L’efficienza a lunga scadenza anzichè l’efficacia immediata risolta a tavolino, dove tutti i conti “magicamente” tornano spostando la virgola.
Privilegia la responsabilità: i conteggi di lunga durata che mettono a bilancio non solo l’esigenze immediate della propria generazione ma anche quelli della comunità, dell’ambiente e del territorio.
Che si preoccupa di fare e di poter poi modificare, smaltire , riutilizzare senza costi proibitivi e ferite dure a sanare.


G. Canella : Veduta del Naviglio di San Marco

Appare evidente quanto la slow-architecture faccia parte più della tradizione che della modernità o della tumultuosa contemporaneità che tutto afferma e nega, al contempo, come una divinità in delirio.
Altrettanto evidente come gli architetti di oggi siano poco attenti, se non sordi, al linguaggio della tradizione; alla sua moderazione e responsabilità, alla sua antieroicità, al suo essere “comune”, universale, sottotono, persino banale e minuta.
Non implica la lotta dell’individuo contro tutti, nella meravigliosa ed affascinante corsa verso il radioso futuro; non prevede nessun impegno straordinario, nessun compito epocale, colpo di teatro, nessuna fiaccola della modernità da sollevare, per attrarre l’uomo d’oggi e farlo sentire attore ed al passo con i tempi. Sostanzialmente perché non c’è, nella tradizione, una storia, un prima ed un poi: tutto giace sullo stesso piano e ciò che è stato fatto dagli uomini più semplici, spesso oggi immaginati rozzi ed ignoranti, gode dello stessa dignità ed autorevolezza dei "capolavori" di grandi interpreti; con l’unica condizione che il linguaggio sia confrontabile con buona evidenza e che, di conseguenza, gli oggetti si parlino e non siano antitetici.


N. Palizzi : Piazza Orsini in Benevento

E’ un esperienza semplice e consolidata, affinata nei millenni di esperienza costruttiva ed abitativa, di intelligenza pratica ed efficienza fenomenale.
Il linguaggio che sottende è implicito (…immanente direbbero i filosofi…) alle caratteristiche tecniche della costruzione.
Se si utilizzano delle pietre squadrate per realizzare il basamento di una costruzione , se queste pietre sono lavorate e rifinite, quello che si otterrà è un bugnato ; se si appongono delle piattabande e delle spallette ( il cui uso s’impone date le caratteristiche tecnico-strutturali della muratura ) in materiale più resitente e compatto, se queste si rifiniscono al meglio, si otterranno cornici, mostre e timpani. Se si inseriscono dei materiali più resistenti nei ricorsi delle murature ed al termine delle stesse sotto le coperture, si otterranno cornici e cornicioni. Se si inseriscono rinforzi negli spigoli e nelle ammorsature dei muri d’ambito con quelli portanti si otterranno lesene.
Si evidenzia e si compone così, in modo semplice, un sistema di comunicazione che racconta come è fatto l’edificio.
Descrive, quindi, la logica di esecuzione e di funzionamento.
Racconta, altresì, “l’orgoglio del costruttore” (…chi commissiona, chi organizza, chi materialmente realizza…) e la sua sapienza tecnica, le sue capacità realizzative.

Un programma, un protocollo, una ricetta scritta sulla superficie del manufatto.

Il racconto, la comunicazione al mondo, di un’esperienza fatta con le parole (...materiali e tecniche in questo caso..) della propria civiltà, del proprio contesto d’appartenenza, del quale si riconosce il significato anche sociale, le norme, scritte e non, che regolano e guidano la convivenza.
Anche al mutare di alcune contingenze ( murature di pietra grossa invece dei blocchi squadrati, mattoni ed intonaco sagomato invece di blocchi di pietra scolpiti ) il linguaggio non muta sensibilmente perché la necessità comunicativa richiede, comunque, che sia conservato lo strumento di mediazione con la comunità.

Anche un fatto logico oltre che la compita descrizione di quello che effettivamente è stato posto in opera.

Questa logica è riscontrabile sul territorio, strettamente connessa alle altre attività d'uso e trasformazione, per cui si integra facilmente e naturalmente negli elementi vicini, nelle strade, nei campi, nelle piantate.
Da questo linguaggio comune traggono origine gli edifici più complessi e rappresentativi: i capolavori dell’architettura maggiore, irriconducibili ad attività autonoma dello spirito del progettista-demiurgo, ma espressione del "senso comune", della necessità di gestire, al meglio, il proprio territorio ed i propri prodotti.
L’architetto, qui, è solo un mezzo, uno strumento della sua società che si esprime attraverso lui.


D. Roberts : Vecchi Edifici Sul Rio Darro in Granada

Efficienza e sostenibilità dei componenti

Alcune caratteristiche sono talmente evidenti da renderla perfettamente attuale ed efficente
Facilità di reperimento dei materiali (provenienti dalle immediate vicinanze quando non estratti in situ) e di trasformazione delle materie prime in materiale da costruzione.
Economicità e ridotto costo di trasporto.
Durabilità e coerenza insita nella struttura del materiale (mattoni, pietre, legno)
Semplicità di posa in opera e di recupero (pietre e mattoni,architravi) possono essere reimpiegati per svariate centinaia d’anni).
Reversibilità : l’uso di leganti deboli e tecniche elementari consentono di reimpiegare e/o sostituire il materiale con estrema facilità.
Scarso impatto ambientale : quando non riutilizzati i materiali costituenti ritornano facilmente e senza danno al loro stato di materia


Zahrtmann : Tavola Imbandita - Portofino

Efficienza strutturale

Esiguità di carichi per cmq (consente anche al materiale meno resistente od al legante più debole di sopperire alla propria funzione)
Continuità della struttura impedisce che si accumulino zone di resistenza più accentuate e più facilmente dissestabili
Forte spessore delle strutture in elevazione ben ammorsate e collegate regolarmente fra loro da muri d’ambito, di spessore analogo, costituiscono un’ottima struttura in elevazione; adeguata a contrastare ogni tipo di dissesto. Va da sé che la buona fattura delle muratura ( la disposizione delle pietre all’interno, la fattura delle malte, la realizzazione dei necessari rinforzi sugli angoli e sulle aperture, i filari di mattoni pieni inseriti ogni metro ) conta molto: alcuni tipi di murature a sacco, tenute insieme dall’intonaco e qualche volta dalla carta di rivestimento, sono di contro poco affidabili.
Proporzionalità dei carichi, sempre più leggeri a partire dal suolo, e limitato numero di piani realizzano una struttura saldamente ancorata al suolo
Leggerezza di solai e coperture : calibrate sui carichi modesti della residenza permettono nel tempo una veloce manutenzione ( sostituzione ) e modifica ( di altezze, di inserimento impianti ecc. ecc. )
Semplicità di manutrenzione : un edificio dissestato si può riparare più facilmente di uno in c.a. che può essere messo profondamente in crisi dal cedimento dei suoi componenti strutturali e renderli per il futuro insicuri anche se apparentemente riparati.


Telemaco Signorini : La Piazzetta di Settignano

Efficienza energetica

• La muratura portante è un’efficace serbatoio di calore che accumula e restituisce lentamente calore creando un microclima dinamico .
• Assorbe e restituisce lentamente l’umidità evitando condense e muffe.
• Le limitate aperture impediscono fughe di calore od eccessivo riscaldamento da insolazione.

Efficienza tipologica

• Le cellule elementari affiancate, di dimensioni contenute - quattro a sei metri di distanza tra gli appoggi- ed i loro multipli e sottomultipli sono autosufficienti ed in grado di soddisfare quasi tutte le esigenze di vita dell’uomo. Maggiori necessità richieste da destinazioni eccezionali sono ottenibili incrementando le dimensioni e attuando particolari dispositivi di legatura.
Terme e basiliche romane hanno attraversato, nelle condizioni di manutenzione peggiore, i millenni .


Pierluigi Boldrini : Papaveri di Toscana

Imitazione e Tradizione

Dobbiamo questa infinta incredibile varietà ed armonia di borghi, cittadine, grandi centri e via discorrendo ad una istituzione che gli architetti moderni ignorano: l’imitazione del linguaggio della tradizione (.. intesa qui con il significato originale e positivo di consegna di un bene…).
Se ogni artefice, nella patetica e molesta antichità, avesse fatto di testa sua; se avesse preferito l’indagine della propria inarrestabile individualità invece di raccogliere e tramandare umilmente le pacate parole profferite da altri, le nostre città sarebbero costituite da qualche oggetto - oggi considerato “monumento notevole”- afflitto ed assediato da un’infinità multiforme di "strani oggetti" asserragliati intorno e forse, più probabilmente, non sarebbe nemmeno giunto a noi, bollato come una inutile bizzarria e demolito in fretta.
Lo scambio, l’imitazione, la consegna non è stato a senso unico: i grandi geni hanno appreso ciò che i proti, piccoli mastri, gli umili contadini, avevano sgorbiato sulla pietra.


F. Borbottoni : Piazza della Signoria

Tutti hanno avuto il buon gusto, la saggezza, la civiltà in fine, di ripetere, riscrivere, tradurre, sempre la stessa storia; ben consapevoli che essa appare identica solo a chi la osserva frettolosamente ed invece non è mai una copia pedissequa, implicando sempre una qualche novità .
Questa è la processualità, la tradizione . Un fenomeno “spontaneo”, evidente, semplice, che ha apportato e continua ad apportare modifiche ; ha condotto l’uomo fuori dalle caverne, e forse un giorno (… lontano…. ho l’impressione…) lo porterà ad alloggiare sulle nuvole.
E' un oncetto perfettamente inteso anche dai sostenitori della modernità: tantochè non è infrequente tra costoro l’imitazione dei nuovi “maestri” o la tendenza, non senza difficoltà, a costruire nuove tradizioni più aderenti a quelli che appaiono, a prima vista, i nuovi compiti assegnatici dalla vita, dal progresso o dallo sviluppo.


F. Borbottoni : Veduta di San Tommaso

Il nodo, però, è qui : perché costruire nuove tradizioni ed altri linguaggi ?
Scartando il tedio esistenziale, che non s’addice a fatti così impegnativi e costosi, cosa è successo di così necessario da richiedere nuove processualità?
Forse è cambiata, sostanzialmente, la vita dell’uomo ?
Il ciclo del silicio ha sostituito quello del carbonio ?
Non dipendiamo ancora dall’ambiente fisico che ci circonda, dalle campagne e dal mondo vegetale ?
Abbiamo forse sconfitto la gravità ?


F.Borbottoni : Chiesa della Palla in Firenze

In vero qualche piccolo ( inteso in senso storico ) cambiamento c’è stato; ma l’affollamento dei landò sui boulevard è estremamente simile agli ingorghi cittadini . La folla di carretti che attraversava l’Urbe nottetempo rassomiglia, per confusione ed inquinamento, alla lunga teoria di camions sulle autostrade. I veicoli hanno più o meno le stesse dimensioni di sempre. Gli abiti vanno e vengono continuamente, le rockstars vestono allegramente con le crinoline delle nonne.
Le forme d’aggregazione sociale sono le stesse; ripetute ciclicamente da diverse migliaia di anni, repubblica, dittatura, principato, monarchia, repubblica: gli stati si formano, s’ingrandiscono, poi si dissolvono di nuovo.
Si ritorna allegramente con le cuffiette dell'I-fone all’Europa di Metternich, si ripropongono le autonomie locali disegnate dal territorio fisico. Società di massa e mobilità sociale sono tali e quali a quelle dei tempi di Petronio e forse anche addietro. La poesia più amata è ancora quella di Tibullo e Virgilio.


F. Borbottoni : Chiesa di San Pier Buonconsiglio in Firenze

Gli edifici necessitano ancora di muri perimetrali e di tetti; si adattano ancora al passo fisico degli uomini, si integrano alle loro necessità, li riparano dagli eventi fisici .
Queste ovvie , elementari, persino banali osservazioni, sono patrimonio di tutti, o quasi... tranne... degli architetti che invece si trastullano inseguendo le mutevoli, estenuanti, divagazioni tecnico-formali indotte dai potentati economico-politici di turno cui fanno da zelanti mosche cocchiere e che riescono egregiamente a materializzare in quella che si potrebbe tranquillamente chiamare architettura febbrile: i cui casuali edifici corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio.

Architettura e Linguaggio

Anche in Architettura il pensiero, qualcuno l’avrà sospettato, si articola solamente in presenza di un linguaggio.
In sua assenza è difficile parlare di pensiero.
Caratteristica saliente è la sostanziale continuità nella storia.
La lentissima, a volte impercettibile, evoluzione permette di mantenere un rapporto continuo e ricucire un’epoca con l’altra.
La Maison Carrè parla ancora alle casine basse e modeste d’intorno; dialogava, un tempo, con il teatro antistante; demolito di recente per far luogo all’edificio di Foster.
Questo teatro di provincia era inferiore ma non indegno.


Corinto Corinti : Palazzo dei Della Luna in Firenze

Invece l’edificio di Foster, per altri versi ben fatto, ben costruito,ben realizzato, bello in fine, non dialoga affatto: è un estraneo e muto, quanto indecifrabile, segnale piantatovi per caso, per distrazione...forse !.
Una bandierina per avvertire che, come uomini, siamo diventati grandi e possiamo quel che vogliamo.
Dal momento che facciamo aprire, con lo schioccare delle dita, le finestre, i brise-soleil, comandiamo alle lampadine, mobilitiamo le prese, siamo divenuti sicuramente più importanti e forti delle generazioni passate e le sfidiamo per affermarci come individui ; lasciamo quindi la nostra traccia imperitura.
Giudichiamo chi e cosa deve rimanere e chi deve tornare nell’ombra.
Per tutto ciò che non ha autore, certo e giubilato, non v'è sicurezza ! E' a rischio di demolizione; di trascuratezza; di uso improprio ed irrispettoso.
Abbiamo così tanto bisogno di affermazione perché non siamo affatto sicuri di ciò che siamo !
La tecnica ci ha montato la testa; promette meraviglie ma non le realizza; rimane nelle vaghezza delle promesse senza assurgere a verità incontrovertibile.


Corinto Corinti : Via Calimala in Firenze

Eppure gli uomini che frequentano od hanno frequentato i due edifici, così lontani nel tempo, sono assolutamente gli stessi; si nutrono alla stessa maniera, si vestono di cotone e lana, si organizzano in comunità ecc. ecc.
Lasciare intendere che vi sono dietro due tipi diversi di umanità è come postulare che Virgilio, Dante, Shakespeare, e nel suo piccolo Manzoni, appartengano ad un'altra razza; ad un altro genere umano che non c’è più. Un fantasma ! ... come l’uomo di Neandertal.
Giudicare quest’uomo estinto dall’evidente diversità con cui l’attuale si sposta nello spazio, o dall’uso che fa di qualche altro brillante ausilio tecnico, è la più imperdonabile delle leggerezze.
Ancor’oggi quando citiamo un verso di Dante, noi “siamo” Dante: quando parliamo la lingua della tradizione siamo quegli architetti che ci hanno preceduto e quelli che ci succederanno: siamo nella storia e non “la Storia”.
La modestia non nasconde il valore: lo percepiamo ogniqualvolta scopriamo quanti “ordinari incanti” siano nascosti tra le pieghe del territorio e della città.
Ma nel nostro mestiere, i più si affaticano ancora ad organizzare e riscrivere un linguaggio ed un universo nuovo, affidandosi alla “scientifica” permutazione di tutte le infinite variabili nella esilissima speranza di trovarne, per un benigno quanto improbabile dono del caso , la chiave.
I più indulgenti ne potrebbero dedurre, con la stessa logica, che il ripetersi disordinato di tali linguaggi costituirà, esso stesso, l’Ordine; ma questa graziosa e raffinata speranza non credo possa rallegrare l’attesa di alcuno….


Corinto Corinti : Via Calimala in Firenze

Sembra, al contrario, che proprio tutti riconoscano quanto, in questi ultimi 90 anni, quanto gli architetti abbiano contribuito alla confusione generale con la propria attività mentale: continua appassionata, versatile, coinvolgente e del tutto insignificante; quanto i più scaltri fra loro vi abbiano profuso l’autorevolezza che danno la superbia, il denaro, la “freschezza” di pensiero, la coscienza di coronare una gerarchia culturale, la mancanza d’immaginazione, i limiti, la stolidità.
Partecipare a tale forma di decadimento comunicativo è la più pesante responsabilità assunta dal vagheggiato “bravo architetto” (…che tutti invocano come deus ex machina…) e lo rende imperituro creditore della perplessità degli uomini.
Abbiamo avuto il palazzo d’amianto, quello di cemento armato, il palazzo di vetro, i gusci di coleotteri, mitili, nematodi, zanne d’elefante, "girevoli” per di più… Ne abbiamo contati a decine forse centinaia, migliaia.
Tutti entusiasticamente acclamati: tutti dimenticati in fretta.
Nel brevissimo volgere della vita, egli li cambia più volte, li manipola, li rinchiude infine, come un bambino stanco, nel polveroso ripostiglio dove, ogni tanto, getta un’occhiata affettuosa convinto che possano tornargli utili.


Giovanni Miglioranza : Teatro Berga

L’architetto, s’è perso: credendo di operare in modo sociale e civile, aderente al contesto, in realtà non fa che confermare l’esatto contrario.

Ovvio quindi, persino banale, riportare tutto il ragionamento al punto di biforcazione per ricostruire, a partire da premesse fondate, il cammino logico ed espressivo.

Stupirsi che qualcuno possa essersi stancato del gioco ed aspiri a cose più solide da lasciare, senza farsi ridere appresso, a figli e nipoti ed ai nipoti dei nipoti, è perlomeno ingenuo.

Questa modernità...

Invece di elaborare, con logica e pazienza, un sistema, una teoria condivisibile che dia un posto a tutte le cose e giustifichi il mondo , questa modernità propone un’irrazionale ablazione della storia che giunge a definire città ed edifici esistenti come resti inabitabili di una civiltà scomparsa.
La sfida, che potrebbe essere quella di utilizzare tutta la notevole capacità tecnica per un uso intelligente e rispettoso, si riduce alla celebrazione delle fantasie teratologiche di demiurghi malevoli ed improvvisati Dei inferiori.
Alla base, un’ abitudine intellettuale, latente ma continua: concepire il tempo come una quarta dimensione dello spazio.
Questo semplice, quasi involontario, postulato basta per convertirlo in spazio e ammettere che ci sia un secondo tempo ( anch’esso sotto forma spaziale); poi un terzo e poi un ennesimo con aspetto di linea o fiume.
Solo questi tempi futuri sono ritenuti significativi. Solo questi sono reali.
E dal momento che per poter trasferirsi in un futuro nuovo bisogna, inevitabilmente, superare l’esistente e pensarlo come termine negativo, è necessario rimuoverlo, (… non avrebbe senso spostarsi in un futuro ugualmente o meno efficace del passato …) al limite ridicolizzarlo: ciò che puntualmente avviene.
Ma se il futuro inizia dall’oggi e dallo ieri, progettarlo è, inevitabilmente, pensarlo con gli occhi del passato.
Eliminare le condizioni fondative, per osservare o svolgere un fenomeno, è cancellare l’origine delle coordinate. Consegnarlo all’oblio organizzato della storia, al ripostiglio degli abiti vecchi; può attenuare o nascondere ma non sminuire il problema.
Questa pratica, possibile in teoria, non lo è nei fatti poiché le tracce di ciò che era prima - il mondo in fine - sono ineliminabili: continuano a persistere ed operare, spesso egregiamente , ad essere efficaci, nella nuova dimensione postulata di spazio-tempo contraddicendo l’ assunto. Non solo nel dato fisico contingente ma soprattutto nella memoria.
L’antinomia, irrisolta e forse irrisolvibile con gli strumenti a disposizione, innesca un preoccupante meccanismo ripetitivo: un gioco al rialzo che genera la mutazione continua, di presupposti ed obiettivi, di norme, anche in contraddizione tra loro; amplificato ad arte dai grandi mezzi a disposizione .
A velocità via via più elevate, tanto che nella vita degli individui, nell’arco temporale di pochi anni, tutto si volge e si stravolge generando sovrapposizioni, ripetizioni, confusione ed angosce: minando anche concetti fondativi come il diritto, l’economia, il rapporto con la natura che procedono ad altre velocità con altre traiettorie ed hanno altre esigenze.
Questo percorso, non esclusivamente intellettuale, non è a costo zero: i cambiamenti, le novità, lo sviluppo, le riforme, le rivoluzioni, costano: fare e disfare impegna una parte considerevole del le risorse di cui si dispone. Costano le cose nuove che si vanno a realizzare e quelle vecchie che non si sa come utilizzare o smaltire ma che ingombrano il passo; costa anche apportare adeguamenti ritenuti minimi.
Ad una società fin’ora giudicata ricca le risorse sembrano non mancare mai : ma sono anch’esse un’esagerazione del calcolo e della teoria; un’ipotesi, una scommessa, una moltiplicazione virtuale . Il debito che opprime più di uno stato è diretta conseguenza di un siffatto modo di pensare aggravato dalla scarsissima onestà, intellettuale, che alberga nei cuori.
Ma In attesa di un’improbabile dono del Caso che sveli ordine e significato universale si propone il culto della complessità ; una media, forse, o una somma: un vaglio nelle cui maglie passa tutto e che contraddice l’assunto esagerando una tendenza che è comune: fare della metafisica e dell’architettura una sorta di gioco delle combinazioni.
Coloro che lo praticano dimenticano che un opera, un edificio, anche la cuccia del cane, è più di una contenitore occasionale: è il posto che riesce ad occupare nel territorio, nella società, nella storia anche minuta, nel linguaggio: le durature immagini che lascia nella memoria.
L’idea dell’architettura come gioco formale conduce , nel migliore dei casi, al buon lavoro di dettaglio, ad un decoro generale; nel peggiore all’oscurità di opere dettate dalla vanità e dal caso.
Un algebra tridimensionale con cui chiunque potrebbe produrre qualsiasi edificio a forza di tentare variazioni.

L’architettura di Babele non è lontana …

Dicotomie nell'Architettura...

Gli architetti proprio come gli altri uomini (….incredibile a dirsi !…) nascono modernisti o tradizionalisti.
Gli ultimi sentono che tipi, ordini e generi sono realtà; i primi semplici generalizzazioni. Per questi il linguaggio è un approssimativo anche se intrigante gioco di simboli, per quelli la mappa dell’universo.
I tradizionalisti sanno che l’universo costruito è, in qualche modo, un cosmo, un ordine necessario; tale ordine per il modernista può essere un errore od una inganno della conoscenza parziale.
Gli uni credono che l’architettura sia un prodotto dell’individuo, del singolo che “inventa” grazie alla propria formazione culturale, al proprio gusto ed alla propria visione del mondo: un fatto mentale, esclusivamente del soggetto che può condividere o meno con il contesto. in quest’ambito può assumere valore ciò che esiste ed è attribuibile ad un altro “io”: un altro “universo”, parallelo forse, ma non il proprio. Il fatto esiste, in fine, soprattutto“dentro” di se.
Gli altri privilegiano ciò che s’è storicamente determinato; frutto di lunga, paziente, oscura quasi sempre, evoluzione di modi ed espressioni anche lontanissimi nel tempo, ma mai così distanti da essere incomprensibili ed inattuali. Ammettono il contributo del singolo ma solo in un quadro più generale. E potrebbero anche immaginare la storia dell’architettura senza un Michelangelo (…non tutti i paesi hanno visto nascere ed operare personaggi siffatti… ) ma non senza l’ambiente minuto che l’ha generato e che reputano altrettanto, se non più, importante.
Per gli uni l’artefice è unico ed irripetibile e solo a lui è ascrivibile l’oggetto : per gli altri è molteplice perchè tutti gli uomini sono, in fine, “un uomo” solo.
Nessuno veda nelle righe che precedono spregio o censura. Solo una grande, strabordante, vitalità , non un’incapacità speculativa, impedisce al modernista di operare con continuità storica. Da questa irriducibile separazione, a mio avviso, originano le concezioni antitetiche di vero e di falso applicate all'architettura.

La catastrofe del senso...

La continua produzione di valori, la distruzione degli antichi, il cambiamento elevato a regola fondamentale della vita costituiscono il profilo del modernismo architettonico e culturale che oggi si segnala come grande gesto di vitalità ma che, al contempo,si espone al rischio non infrequente di essere succube di come vanno le cose.
Ciò accade puntualmente quando si offre il processo storico come prova di verità. A mitigare questa affermazione si può osservare che la mutevolezza è spesso apparente ed è sempre possibile rintracciare principi comuni e non mutevoli; a patto che non si passi al rullo compressore della ragione geometrica ed universalizzante tutti i dati storici ed etnologici.
Contro questo impiego ipertrofico della ragione astratta ed “esprit de geometrie” l’unica ancora di salvezza è l’architettura tradizionale; ovvero “architettura naturale”:
Una regola ed una misura oggettiva, quasi un ordine vincolante, che viene prima delle intenzioni o delle imposizioni del progettista.
Concorre alla sua definizione lo stato fisico dei luoghi; la materia con cui sono fatti i suoi edifici,le sue città, i suoi campi.
Si pone sempre come massimo risultato ottenibile con il minimo dispendio d’energie a disposizione proponendosi di superare la contingenza dell’oggi per essere utile anche alle generazioni future in cui si riconosce.
Interessa, per ciò, le inclinazioni naturali dei luoghi e degli uomini pur senza indicare, con determinazione e precisione, come agire: come progettare o costruire un edificio od una città.
Quasi un sentimento; probabilmente quel sentimento dei luoghi e delle cose cui spesso si allude senza essere in grado di precisarlo. Un sentimento comune che l’appartenenza ad un preciso ambito culturale e fisico descrivono con un sistema di segni, un linguaggio, che non può non essere espresso e condiviso, pena la sua estraneazione, dall’ecumene di provenienza.
Non è annullamento dell’individuo nella specie ma ricerca di universalità; non strappa l’uomo dal suo luogo naturale e dalle sue forme di vita, mutevoli secondo i luoghi ed i tempi, non disprezza consuetudini consolidate e felici e nell’intento di raggiungere lo zoccolo comune dell’uomo apre possibilità concrete di dialogo e convivenza.
L’universalità dell’architettura naturale è quindi ben diversa dalla globalizzazione tecnologica ed economica che omogeneizzano ma non universalizzano cancellando l’enorme ambito delle differenze. Se così non fosse non costituirebbe più un’inclinazione ma una norma precisa la quale escluderebbe inevitabilmente qualcosa prescrivendo il come ed il perché, il quando e, con buona probabilità, ricadrebbe nelle ristrettezze della contingenza storica.
Quindi un principio d’azione, uno schema dinamico, che non impone, dall’alto vetera novis augere , ma che non si è mai chiuso, e neppure lo farà mai, alla novità ed al progresso misurandoli alla prova del tempo: non il tempo dell’individuo ma quello della comunità. E’ creatore di oggetti pratici ma non di consumo. Rappresenta, tuttora, un forte patrimonio di risorse che non possono esaurirsi e svanire nel giro di pochi anni.
Probabilmente è proprio per questo carattere, spontaneo e razionale insieme, che è sfuggita ad ogni stabile definizione ed appare inafferrabile od incomprensibile alla mentalità rigorosa e catalogante di oggi.
Può essere seguita più o meno attentamente ma non va mai completamente disattesa.
A ciò si è opposto e si oppone tuttora, sia pure con varie sfumature di circostanza, il modernismo. Partito dalle vette della metafisica ha condotto e conduce, più o meno intenzionalmente, alla decostruzione del concetto di natura ( verum e factum di vichiana memoria )
Modernista non è colui che ha sgombrato il campo ad inutili e leziosi reperti di un mondo che non c’è più ma colui che non crede a quanto è: a quanto può vedere con i sui occhi; non crede al verum ed al factum riscontrabili nella realtà. Ovvero crede ad una sottospecie di verum od factum riferita ad ogni singolo individuo ad ogni architetto. Seppure implicitamente, egli disdegna il “soggetto collettivo” il “noi” che considera piuttosto un’indebita ingerenza od astrazione; uno scherzo sinistro del caso.
Nega perciò fede alle evidenze, chiuso nel suo universo personale di sfide, di volontà, di novità; nega fede a questa grande costruzione collettiva che è la civiltà ed il territorio.
Nel modernismo si abbonda, per difetto e per eccesso, di ragione sfogando una forma perniciosa di razionalimo assoluto che sacrifica duramente la realtà ad una vuota formula logica in cui l’architetto impersona la Ragione che rigetta nell’assurdo e nell’irrazionale tutto ciò che non quadra con la sua misura formale.
Ad appoggiare questa tendenza è la svolta di origine “debolista” che intende farla finita con la gnoseologia realistica ( verum = factum ) per affidarsi alla teoria che tutto è interpretazione; ma se tutto è interpretazione non resta nulla che stia fermo; saremmo perciò alla ronda bacchica in cui tutti sono ubriachi; od al teatro magico il cui prezzo d’ingresso è il cervello. D’altra parte anche quest’ultima svolta non può sfuggire alla regola impostasi; è solo un’ennesima interpretazione in più: non può avanzare alcuna pretesa particolare e, meno che mai, definitiva tale da poterla confrontare con altre, in altre occasioni, con altri soggetti; non si presta a diventare un patrimonio o prassi comune.
Decade quindi a un fatto puramente intimo: una sorta di dialogo continuo e segreto tra l’io e la divinità… od il nulla .
Disciplina formalmente ammirevole, giacchè questo atteggiamento contiene una buona dose di fascino, ma che in fondo sollecita e fomenta l’illusione del “io” in un contesto da attribuirsi invece al “noi” della società umana.
In tal senso è profondamente immorale.
Per il modernista il transito per queste gole non è facile; spesso non si tratta di fantasie di uno sciocco ma dell’esito di una profonda crisi scettica che vede la realtà come entità irraggiungibile e si sfarina in un infinità di interpretazioni situate e variabili in cui si riflette l’impenetrabilità del mondo e l’arbitrarietà del progetto e che infine rinuncia all’idea stessa di verità considerando questa condizione non alla stregua di un ospite inquietante ma una condizione cui adattarsi gaiamente.
Peggior sorte tocca a tradizioni e culture tramandate di cui non è in grado di stabilire verità e conformità all’essere reale: ragion per cui l'opera non potrà mai sporgersi otre la temporalità e la finitezza e di queste ultime e potrà definire solo ciò che egli stesso produce.
Se questa è l’autentica natura del modernismo rimane un riduttivo equivoco intenderlo come un attestato, un riconoscimento alla contingenza umana; che è talmente evidente, e ci circonda da tutte le parti che non abbisogna certo di riconquiste; non si riconquista l’ovvio e l’evidente.
Con un audace ribaltamento dei termini l’architettura, più che un mezzo per realizzare qualcosa, è diventata il fine: qualcosa che oggi non c’è ma che va raggiunto nel futuro; l’architetto moderno si mostra , e spesso lo è, aperto al divenire non perché si attenda la realizzazione di uno scopo ma in quanto questo sarà altro e diverso: mutato rispetto al precendente.
Le ultime tendenze della critica architettonica hanno creato, su tali basi, un modello (.. o mito…forse…) alquanto surreale dell’architettura moderna intesa come età della ragione “forte” in cui il progetto ha accesso al fondamento ( …geometrico soprattutto… ) e l’architetto migliore sta saldo in esso avviando un’epoca di auto legittimazione: si tratta però di una schema di comodo: cercando di recuperare alcune importanti opere o fatti marginali del moderno appena trascorso, trascura, colpevolmente, il premoderno od il classico: questa omissione intellettuale e storiografica pesa come un macigno sull’assunto sottraendole verità e persuasività. Quindi, nonostante tutto non nasce dall’avvento di un nuovo sapere che ha sostituito, soppiantato l’antico, anche se lo vorrebbe far credere affermandolo ad ogni più sospinto, dal momento che l’uomo, il territorio, le necessità, le relazioni, le ambizioni sono rimaste sostanzialmente le stesse ed i cambiamenti introdotti, le notevoli forzature tentate, non sono in grado di competere con le forze della natura che hanno disegnato le pianure, le montagne il corso dei fiumi, il clima e le risorse, e quindi la storia e le popolazioni che le abitano, bensì dal superficiale e semplificato approccio ad esse; negligenza e leggerezza che inevitabilmente conducono al rifiuto e all’esclusione del “verum” creando il vuoto esistenziale.
Una alienazione cui i più reagiscono con rassegnazione, con applicazione ed in maniera totalmente casuale affidandosi ad improvvisi scatti di "creatività" volti al fallimento per l’infondatezza delle basi.
Il sapere non è un oggetto perfettamente “cosale” un oggetto inanimato cui accedere tramite studio, controllo, manipolazione e dominio; piuttosto una costruzione complessa, sedimentata e razionale cui non è estraneo il sentimento ( …comprensione intuitiva ed immediata… ) dei luoghi che appare sufficientemente aderente e modellata sugli uomini ed sulle risorse disponibili; aderente alle inclinazioni culturali ed in ultimo al corretto rapporto tra energie e/o risorse spese e risultati ottenuti.
L’occasione l’ha fornita il grande dispiego di risorse negli ultimi 60 anni dall’improvvisa ricchezza, il più delle volte presunta, ipotecata, pensata, calcolata a tavolino o semplicemente auspicata, che presuppone una organizzazione strutturatissima fin nei minimi particolari e quindi particolarmente impegnativa nonché le indefinite quanto indefinibili prospettive di sviluppo economico, tramontate le quali si rilevano inutili quando non dannose.
L’approssimazione avviene anche per difetto quando si crede che la ragione pratica, quella umana, è considerata tanto incapace da non poter far altro che camminare nell’errore. Magari per approssimazioni successive in un continuo andirivieni di intenzioni.
Da tempo prevale questa seconda forma. Dove la realtà è compresa come muta, estranea ed al limite ostile. Prevale il volontarismo ed il decisionismo; l’io in cui la frenetica attività intramondana sono la contropartita del fatto che l’architetto è spaesato, delocalizzato rispetto ad ordine e misura che non sono “dati” ma eventualmente (…nell’occasione più propizia..) instaurati mediante un colpo di forza esistenziale da se stesso o da altri più abili o fortunati.
Questa incommensurabile mancanza di fini e motivazioni portano inevitabilmente alla catastrofe del senso; si spegne l’orizzonte veritativo comune (…il factum…) ed emerge, prepotente, la categoria della “progettualità” della produzione, della ricerca come valore assoluto; della tecnica.
Tutto può e deve essere progettato.
Un rapporto siffatto con il mondo è, inevitabilmente, teso e conflittuale. Con la leva di un malinteso senso dell’”impegno” si coltiva una smisurata volontà di im-porsi di cambiare le essenze. Volontà inane perché si illude di agire sull’ambito del necessario (…quale è quello delle essenze…) ma assolutamente pericolosa (…nel piccolo della nostra disciplina…) perché infiniti disastri provengono dal tentare l’impossibile.
Qualsiasi cosa può diventare architettura se una volontà precisa e determinata, supportata dalla tecnica, dalla politica e dalla finanza lo vuole.
Mitili, espettorati di plastica, palloni gonfiati -e la casistica è ben più ampia- si accostano a quanto realizzato in millenni di vita trascorsi attenti al territorio ed il mondo.
Il più pesante è stato messo sopra, sotto, a traverso, a sinistra, a destra senza porsi alcun problema; il miracoloso linguaggio costituito dagli elementi costruttivi classici è stato cancellato o gonfiato smisuratamente fino al parossismo.
Con essi l’addio definitivo alla ragion pratica, la tradizione, la saggezza delle generazioni passate. L’immensa area della prassi comune è abbandonata a se stessa in un processo a due tappe. Dapprima si nega ogni carattere conoscitivo e normativo cercando però un qualche metodo di stabilizzazione nell’ambito dell’agire tramite procedure e formalismi da leguleo o farmacista: poi anche la forma salta e lascia il campo aperto al divampare del volere che, qualunque esso sia, diviene il valore più alto.
Comune alla scienza è il concetto di proton pseudos secondo cui è possibile raggiungere la verità con un processo meramente logico. Una sorta di identità tra logica e metafisica secondo cui l’automovimento logico del progetto è identicamente lo sviluppo del reale: dell’edificio e della città.
Un equivoco primordiale che non fa mai uscire dalla sfera del mero pensiero logico per attingere la realtà.
Si tratta, ahime !, dell'iperlogicismo o iperrealismo che popola il discorso di essenze inventate o citate ad hoc e che esistono solo, nella mente di chi le crea, per puntellare in qualche modo il sistema.
Qualcuno potrebbe pensare che nell’incessante divenire dell’architettura nel produrre e distruggere correnti, ambizioni, idee ecc.ecc. sia possibile tener fermo qualche aspetto del metodo. Ma l’architetto veramente moderno e coerente non lo permette: dopo aver congedato i contenuti si disfa agevolmente anche del metodo; e non senza buone ragioni da parte sua: nessun atteggiamento nessun metodo possono tenere unita una disciplina di cui non sono più noti oggetto, valore, fine e che fatalmente si sparpaglia in tante direzioni contrastanti . Quello meno coerente resiste sul metodo e sulle procedure. Affidarsi ad una procedura significa puntare non su contenuti ma su regole di progettazione/produzione della progettazione/produzione.
Decidere come si deve progettare: l’architettura decade a tecnica progettuale a procedura formale che mettendo a disposizione un itinerario di metodo produce un effetto: un brano di architettura.
In tal modo si è pronti ad accogliere i più svariati contenuti.
La critica al modernismo non dovrebbe essere portata sul piano della vita (… intesa in senso indifferenziato…) perche anche il modernismo può in qualche modo essere un vitalismo ma sull’unico versante che conta che è quello veritativo.
Il modernista è in fine uno storicista per necessità che ritiene non si possa uscire dal mondo storico contingente: è il primo sostenitore e convinto assertore del refrain che circola sottotraccia : “ dopo X non è più possibile che…”; trattasi dell’accettazione possibilista del fortuito ed occasionale ed è la sola risposta davanti al tramonto di antiche o sopite unità. II pregio fondamentale che gli architetti moderni riconoscono a tale atteggiamento è la virtù liberatrice del divenire e del progresso che esalta la responsabilità della decisione; popola il modo di scopi e volontà militanti di impegno civile; prescrive all’architetto di chinarsi sull’oggetto consuma e valuta il peso della tradizione , fa risplendere la purezza della forma e del progetto.
Ma se anche il progetto procede dal divenire non vi è motivo per cui non entri nel girotondo.
La dialettica è perciò senza speranza: un nuova tendenza caccia quella vigente sino a poco prima, in una produzione a getto continuo, di cui non è noto il fine o la fine, e che difficilmente potrà esibire i criteri teoretico-pratici d’appoggio in virtù del fatto che tutto sta nel tutto e che l’architettura è una forma dell’esistenza che non può mostrare una assoluta indipendenza metodologica dal resto ma, come attività umana, contrae debiti sia con le numerose altre attività e discipline sia con la concreta vita del contesto civile che non è, bisogna comunque sottolinearlo, solo quello degli ultimi 80 anni ma fa positivo riferimento ad epoche più remote.
Resta il pathos di un’intelletto inebriato dalla fascinazione della novità e dalla ricerca che fatica ad incontrare la vita reale.
Questo perenne movimento dell’uscire e rientrare nel niente è un disguido che si paga carissimo perché porta fuori strada sin dall’approccio.
"Questa è appunto la modernità !” ...viene detto. Un inno al divenire; ad essere aperti e cogliervi confidenti occasioni.
Ma questo è appunto lo storicismo: essendo andate le cose nel senso della dissoluzione di stabilità, verità e certezza dobbiamo accogliere l’esito ed acconciarsi ad esso. Storicismo della più bell’acqua che non trovandosi più niente in mano è denotato, in ultima istanza, dalla mera accettazione della continuità del processo storico come ultimo valore. In questo quadro in grande movimento dove trovare le fondamenta ?
Nihil volitum nisi precognitum.
Una contraddizione insidia al tallone l’architetto moderno: vorrebbe inaugurare una storia di libertà e creatività ma non ha basi reali a cui fare riferimento; verso chi o che cosa essere responsabili se tutto è stato sdegnosamente gettato all’ortiche ? Residua unicamente la volontà di cambiamento, la progettualità, continua avvitata su se stessa che per propria natura non è solida ed è piuttosto un affidarsi al divenire che una realtà condivisa e dotata di senso.
Senza tener conto di questa massima l’architetto moderno si trova su un palcoscenico mobile che in un attimo può volgersi verso il contraddittorio e l’assurdo in ragione della fatale negligenza in cui viene lasciato l’atto del conoscere ; ovvero almeno la metà dei problemi. Sarebbe un procedere alla carlona ed a buon mercato ritenere che alla fine tra spinte e controspinte qualcosa si aggiusta.
La cultura architettonica è destinata all’in-significanza od alla catastrofe se non è strutturata, vivificata, tenuta in piedi da qualcosa di più alto e diverso dalla volontà e dall’inclinazione dei singoli individui per quanto importanti e di spessore.
In questo contesto vige ancora la legge di Comte che stabilisce tre grandi fasi della cultura umana: dapprima teologica, poi metafisica, ed infine (… e definitivamente a quanto sembrerebbe…) scientifico tecnologica. L’avvento di quest’ultima segnerebbe la fine “irrevocabile” delle precedenti.
Saremmo arrivati alla fine delle tribolazioni, all’agognato traguardo, alla fine della storia. Tutto ciò che à stato il verum o meglio il factum, dipenderebbe da variabili e contingenze che non ritornano più. Ciò spiega la tendenza irrefrenabile dello storicismo relativista a mettere da parte gli antichi e consolidati valori pensando di trovarne o produrne di nuovi volta a volta accettabili .
Il gioco funziona fino a che ci si rende conto che non è più possibile inventarne di nuovi ed allora si presenta impietosamente il dilemma: riprendere contatto con gli antichi valori o gettarsi nelle braccia della prima contingenza a portata di mano diventando l’apoteosi della variabilità. Nello storicismo si esprime l’idea che il recente e l’attuale sia meglio del passato e che il fluire del tempo sia di per se creatore di valori. Il superamento è avvenuto come spesso avviene per sentito dire, perpetuando una non lodevole tradizione fatta di assiomi ripetuti all’infinito, senza un vero riesame dei fondamenti, riconsiderazione che esige di lavorare non solo sui libri, sulle riviste, sulle biografie di architetti illustri o sconosciuti, sull’individuo ma di interrogare la realtà, gli uomini tutti, rimanendo aperti all’ascolto.

Copiare l'antico ?

Nonostante quello che si potrebbe pensare le “case copia” i rifacimenti di cornici e decorazioni sono assai ben metabolizzate da quasi tutti (.. meno gli architetti moderni e coloro che ora s'indignano dei falsi...ed ai tempi bacchettavano L.A. Alberti .. mo' che so' tutte’ ste cornicette..); Suscitano persino apprezzamenti. Certo da parte della gente comune, quella non avvezza ai drammi del moderno o quella a cui non è stato divulgata, a dovere, la buona novella della trimuti modernista.
Quando poi l’opera è ben fatta si integra perfettamente nel contesto. In quelli più maltrattati dalla contemporaneità si ritaglia subito un ruolo di saggezza e di autorevolezza: sembra sia lì da sempre e soprattutto non sembra che ci sia passato l’architetto.
Sarà un danno per la categoria ma sicuramente un vantaggio per l’umanità.
Chi s’è fatto due conti sa anche che sono molto economiche: con del semplice ed economico intonaco qualche sottomisura ed un a bottiglia vuota si fanno dei miracoli ! Per le stesse ragioni sono assolutamente compatibili sia con il cantiere, sia con il progetto: non richiedono millimetriche elaborazioni modulari, sopportano agevolmente qualche inevitabile imprecisione e ben s’accordano con le tasche di chi deve fare o comprare l'edificio.
L’unica cosa con cui non s’accordano è il “contesto moderno” ma solo perché è ancora indefinibile .
Cos’è la modernità ? Quella cosa che spinge alle stelle i prezzi di ogni cenciosa capanna toscana e di zone adiacenti ? Quella che fa costruire villaggi e parchi di divertimento in stile ? Quella che ci fa azzuffare per l’appartamento del portiere in un quartiere periferico di casette popolari ? Quella del mulini bianchi ?

Sostenibilità

L'edificio sostenibile esiste già! L'hanno già inventato !
Quello che consuma di meno ed è più adatto !
Non ha bisogno di brutti marchingegni, sui tetti o nelle cantine, per essere vivibile, economico, flessibile e via dicendo.
L'autentica architettura sostenibile, incredibile a dirsi, è quella storica, tradizionale; quella che s'identifica con l'uso di materiali le tecniche, le tipologie ed il linguaggio del contesto geografico in cui insiste. Incredibile ed intollerabile per chi si figura che i nostri maggiori fossero degli sprovveduti, ignoranti ed incolti; dei bruti, insomma, da cui allontanarsi alla svelta in cerca di destini magnifici e progressivi (..ora anche economici...)
Quella che prevede:

Massima limitazione degli spostamenti: sono stati anche nell’antichità costosi e lo sono tuttora . Oggi che si estrae l’alluminio in Angola, si trasporta fino in Cina per fonderlo, e poi negli stabilimenti dei singoli paesi per lavorarlo: ed infine nei cantieri di destinazione.) Si comprende benissimo che questo circuito rende complessivamente antieconomico ed inquinante il ciclo dell’alluminio e degli altri metalli. Un discorso analogo ma leggermente diverso può essere fatto per il legname che a volte giunge da remote regioni con climi talmente diversi da renderne problematico e pericoloso l'utilizzo

Utilizzo di materiali semplici ed economici ( acqua, pietra, legno ed argilla ) perché alla portata di tutti e potenzialmente al di fuori delle logiche esasperate di profitto. Non v’è luogo sulla terra che non abbia un tipo di pietra per la costruzione, un tipo di argilla, un tipo di legname ( … anche il meno adatto- il legno di palma – fa figura nel suo contesto: non vi si costruiscono capriate ma per i solai è sempre stato usato con soddisfazione..)


Utilizzo di leganti deboli e ampiamente sperimentati che permettano la facile reversibilità ( così da riutilizzare le stesse pietre, e gli stessi mattoni, lo stesso pavimento, di un’edificio abbandonato o destinato alla distruzione). Materiali capaci di legare gli elementi ma anche di permettere il loro facile riuso) Se così non fosse stato non potremmo, oggi, riutilizzare gli elementi lapidei, pavimenti, gradini, camini ecc.ecc. le stesse travi dei solai e dei tetti, utilizzate nelle vecchie costruzioni.


Utilizzo di materiali in base alla loro caratteristiche naturali.
Il legno dalle fibre lunghe può lavorare per dimensione ( ovvero può essere sottoposto a forze tendano a fletterlo ). Gli elementi composti di più materiali devono lavorare per forma ( lo spessore dei muri la disposizione ad arco) riducendo al minimo le tensioni interne dei materiali che sono quelle che alla lunga deformano irrimediabilmente il c.a. od il ferro (….di cui sono da temere le giunzioni –rivettature, bullonature, saldature… ) e li mettono in pericolo

Facilità e semplicità di sostituzione e o riparazione.La Muratura portante è facilmente riparabile con metodologie elementari, l’apertura e la modifica di finestre non è proibitiva, il riposizionamento dei solai e dei tetti non comporta difficoltà eccessive e non mette in crisi tutta l’edificio.
Inutile sottolineare che tutte le caratteristiche sopraesposte sono “ecologiche” (…come usa dire ora...) e permettono di riutilizzare i materiali facendo pochi o punti rifiuti tossici ; difficilissimi da smaltire come tutti possono leggere aprendo il giornale.
Al contrario di quanto accade oggi per il c.a proveniente da demolizione, per le guaine, gli infissi d’allumini e ferro, i vetri, i mattoni forati, le materie plastiche in genere.
Con una vecchia trave di recupero ci si possono fare ancora degli infissi, anche ( una volta eliminate le parti compromesse ) un altro elemento strutturale (..più piccolo naturalmente..) ed altri manufatti in legno; con una trave di c.a. si può al massimo ( dopo aver speso fortune alle discariche) fare del tritato per sottofondi stradali.
Con un mattone pieno si può rifare ( bagnandolo abbondantemente) un altro muro; con un mattone forato lo si può solo portare a discarica.
Un vecchio infisso in legno lo si può ancora riparare; alla fine lo si può mettere al fuoco. Un infisso in legno lamellare ( una volta superato il problema delle colle che lo tengono insieme …non sono eterne…) non è buono neppure per il caminetto !
I nostri centri storici, le campagne ed i borghi, sono pieni di questi edifici. Hanno ospitato i mercanti, borghesi, proletari ed ultimamente anche gli architetti. I quali progettano grattacieli ed altri memorabilia ma quando si affacciano da casa propria vogliono vedere la distesa di tegole, di abbaini, cornici di pietra, modanature, lastre di piombo ecc.

IL DEMONE DELLA MODERNITA'

Necessità del Moderno

Il contesto moderno, purtroppo o per fortuna, non c’è !
Nemmeno nella testa o nelle aspirazioni dei moderni.
C’è una quantità sterminata di gradevolissimi, utilissimi (.. per chi li ha..) gadget e supporti tecnologici dal doppio effetto di moltiplicare le possibilità e di inaridile al contempo.
Abbiamo anche una buona quantità di idee “giuste”, poco e mal verificate, ma che ci appaiono comunque, inevitabili, novità.
Tutto ciò, però, non fa una modernità . Non un mondo diverso. Non un altro mondo.
Chiaro è che senza altro mondo non c’è bisogno di “altra” Architettura. Va benissimo quella che c’è stata fin’ora con le cornicette i tettucci e tutte le cose che scandalizzano e fanno gridare al falso (.. od al vero come occorso con le teste di Modigliani a quel vecchio trombone di Argan ).
Per il resto siamo ancora quelli di cento, cinquecento mille, anni addietro: figli della civiltà “agricola” , “artigiana” e “commerciale” che ci ha generato e nutrito.
Quella “industriale” si sta rivelando una meteora passeggera.. la citè industrielle sta collassando !


Graham Wood : Aratura Autunnale

Siamo intimamente organizzati per gestire un rapporto con il territorio. Lo stesso diritto, senza citarlo, implicitamente, presuppone un’organizzazione che è ancora quella di secoli addietro.
Non c’è un moderno perché ce ne sono tantissimi; troppi , diversi e divergenti. Rappresentano ognuno un piccolo parto di qualche architetto famoso allora e sbertucciato ora o sconosciuto ai tempi ma ora in via di beatificazione.

L'uomo nuovo

Ai nostri poveri occhi miopi la rivoluzione industriale , in Italia, deve essere apparsa chissà che.
Oggi, ad appena 80 anni dalla definitiva affermazione, sta già ripiegando su se stessa: le grandi aree impegnate stanno per essere trasformate in residenze, centri commerciali, e chissà cos’altro.
Eppure questo breve ma importante passaggio della storia, invece di inserirlo nel contesto, nel territorio, invece di metterlo d’accordo con la civiltà che l’ha prodotto, abbiamo pensato bene di isolarlo: farne un momento topico e sublime . Di quanto fin allora prodotto, inutile e fastidioso impaccio creato da dilettanti poco alfabetizzati, abbiamo cercato di sbarazzarci alla svelta; salvando solo quelle poche cose indimenticabili da affidare a biblioteche, soprintendenze e musei.
A maggior gloria abbiamo postulato l’uomo nuovo, che avrebbe dovuto esserne il principale attore ed interlocutore; a cascata, poi, la città nuova, il nuovo paesaggio, la nuova architettura ecc. ecc..
Gli architetti, da sempre più realisti del re, han corso molto più avanti degli altri ad organizzare un ambiente, consono alla nuova vita, che l’uomo ha manifestato, però, di non gradire granchè: troppo diverso dal vissuto, tanto da generare una doppia morale: modernisti in pubblico e tradizionalisti in privato. La nuova umanità, anche se sollecitata a gran voce e da più parti e con singolare coincidenza ed unanimità di sforzi, con costanza d’applicazione, non s’è manifestata: di qualunque luogo e ceto d’appartenenza, è rimasta sempre la stessa di sempre: con le stesse ambizioni, relazioni, gli stessi problemi, la stessa lingua e cultura.
Troppi sono stati i profeti del nuovo. L’uomo che doveva incarnare la profezia, lo spirito puro, s'è rivelato di carne ed ossa: amava le cose belle, le fettuccine, il vino e le donne: tornando a casa, voleva vedere una "casa" e non un volume puro (…uno scatolone forato per far prendere aria all’animale costrettovi dentro ? …un comò con i cassetti in disordine ?... ); quando si sedeva in poltrona voleva vedere qualcosa del suo ambiente: vivo, colorato, ed inequivoco, ( a costo di una riproduzione della riproduzione) e non le sabbie di marte, l’ombra di un arto o di un volto.
La casa, la città, intese come un “luogo amico” , “accogliente” : dove si va per trovarsi al sicuro : non per essere sconvolto, o peggio terrorizzato.
L’architettura da intendersi non come riflesso della propria epoca, e delle contingenze momentanee già superate in battito di ciglia, ma specchio della civiltà d’appartenenza; dell’ambiente civile che l’ha storicamente prodotta e la produce.

Maestri

L'architettura moderna si basa sui maestri. Questi sono stati giovani (...partoriti da donna...) ma assurgono a tale grandezza grazie a particolari capacità personali di convincere e di attrarre altri architetti nonchè qualche persona al di fuori.
Importante la loro presenza sulle riviste di architettura.
Le sue opere pubblicate sulle riviste specializzate, giungono fino a sperduti istituti tecnici e studi professionali dove vengono adottate calandole in realtà costruttive non sempre compatibili.
L';invenzione è in genere talmente forte da essere anche poco o affatto confrontabile con quella di altri inventori maestri.
La principale prerogativa è quella di inventare una lingua che però solo loro conoscono bene per cui è difficile anche ai loro adepti coniugare al di fuori Il concetto è : " io (...tutt'al più noi...) ho trovato il nuovo linguaggio: ora ve lo comunico" .
Il bello, la parte gratificante, sta nel "gioco"; nella soddisfazione di parlare un linguaggio diverso, nella sensazione di aver inventato qualcosa di nuovo,
Bene! Di questi maestri e dei relativi linguaggi ne esistono molti.
Al limite ogni architetto ha nel suo zaino il bastone di maresciallo, ognuno è faber.
Va da se che tutto ciò rafforza enormemente l'ego dell'individuo architetto che aspira a divenire lo stregone del villaggio. Colui che mescolando magicamente
gli ingredienti produce il fenomeno. Alza il polverone.
Come si pone costui nella realtà che lo circonda ? Il contesto non costituisce un problema o un limite. Si può analizzarlo comprendere i sui nessi le sue peculiarità le sue necessità e poi... fare tranquillamente tutto il contrario !

Il dettaglio è importante perchè attraverso la complessità (o " complicazione "... dipende dai punti di vista...) del dettaglio si intravede, si legge, il lavorio dell'architetto.
Se non ci fosse dettaglio adeguato o addirittura “il dettaglio già visto” si tratterebbe di un’opera anonima!

Le masse, i piani, gli altri elementi della composizione non sono, onestamente ed oggettivamente, classificabili o definibili quindi sono affidati al sentimento del momento o addirittura al mi piace o non mi piace.
Questa problematica, diversa tra i fruitori ed osservatori viene risolta dal " critico" che scrive su riviste, giornali, insegna all’università ecc ecc: quindi si suppone abbia capito qualcosa (... almeno lui !..) o addirittura elaborato una teoria può fornire una giustificazione plausibile. È un sostegno importantissimo.

Psicopatologia degli architetti

E’ difficile darsi una spiegazione, attendibile, dell’esistenza di un numero sconfinato di linguaggi architettonici moderni (… tot capita quot sententiae…) se non si affronta il nesso psicologico posto alla base.
Il dramma che si rappresenta nel cuore dell’architetto è quello di appartenere ad un contesto civile che dimora saldamente dentro di lui, ma essere (… o voler essere… o dover essere ) al contempo in forte dissenso nelle premesse e nelle finalità.
Il dissenso, alla fine del percorso si comprende chiaramente, è solo apparente ed anche il soggetto più individualista, avanzando negli anni, si rende conto di quanto le sue abitudini, i suoi pensieri, le sue aspirazioni, siano irrimediabilmente “sociali” : “comuni” a tutti gli altri uomini.
Il problema, vivo nella quasi generalità degli individui, comincia a prendere una delle soluzioni possibili quando lo si vede come l’ affrancazione dal padre-padrone, rappresentato inconsciamente della società, che per “l’adolescente” (…l’architetto moderno non riesce mai a superare questa età mentale, nemmeno verso gli ottant’anni… ) è il passo necessario all’affermazione della propria personalità.
Normalmente, quando la società-padre ( come nel nostro caso ) non reagisce o reagisce blandamente, sopravviene la riconciliazione con la conseguente maturazione dell’individuo-figlio che diviene un individuo completo a tutto tondo e membro a pieno titolo della società.
Ciò, purtroppo, nella psicologia dell’architetto moderno accade rarissimamente: più spesso si trastulla in una serie infinita di capricci e ripulsioni in muratura dei quali, spesso, disconosce ad anni di distanza necessità e validità: con quel nostalgico imbarazzo con cui si rammentano bizze e ripicche infantili o gli amori giovanili.
L’individuo-figlio non cresce ma si acconcia nella sua scomoda/comoda posizione da cui tenta seriamente di ricostruire da zero il proprio quadro culturale e logico mediante l’invenzione di un linguaggio nuovo (...per quanto gli è possibile...) o “seminuovo” ricorrendo ad altri “precursori preferiti” di cui valuta ed apprezza soprattutto l’atteggiamento verso la società.
Lo sforzo è titanico e destinato alla sconfitta.
La società che, benigna o distratta, li ha accolti e nutriti paga le rovinose conseguenze sparse per il territorio.

Ristrutturazione del moderno

Anche se può sembrare un’impresa titanica ebbene la ristrutturazione
del moderno è possibile vedi l’edifico Arivella a Ciampino (link) e il condominio
di via dei Bentivoglio (link)
.
Ovviamente quella di un certo moderno: quella che si presti in qualche misura,
che ha qualcosa da salvare!

È difficile da mantenere, non può essere riciclato in altra cosa, non possiede
alcun fascino, non appartiene ad un contesto culturale omogeneo che potrebbe ricavargli un qualche ruolo subalterno. Spesso è in forte contrapposizione con il "contesto" (non solo gli edifici circostanti ma il contesto culturale, il territorio) con cui non dialoga. Ma a leggere questi commenti resto un po' sbigottito.
Premesso che ancora non si sa quale degli infiniti paralinguaggi (...tot capita quot sentantiae...) possa o debba fregiarsi del titolo di "moderno" questo,
qualunque sia, è condannato all'oblio perchè non è lingua viva: non è parlato
da tutti. Riducibile nella migliore delle ipotesi a crittografia di alcuni soggetti,
soi-disent architetti e dagli immediati sostenitori, continuamente e regolarmente
in contrapposizione con altri "crittografi" che si reputano anch'essi depositari
del "linguaggio".
Nella migliore delle ipotesi, anche quando si potesse pensare di stabilire quale sia la lingua da parlare, il problema insormantabile sarebbe andare a "spiegarlo"; prima ad un contesto culturale (territorio e/o civiltà... scegliete voi...) "già formato" da almeno 3000 anni e poi agli attuali utenti: impresa, quest'ultima, forse più semplice con le moderne tecniche del controllo di massa. Se non fosse che
tutto ciò "appare" alquanto individualista ed antidemocratico e desta il sospetto delle "masse ignoranti". Un'operazione di regime: i graziosi regalini del moderno che punteggiano le città storiche sono lungi dall'essere "storicizzati".
Quando un'istituzione appone il cartellino "oggetto di tutela" non compie
una storicizzazione. È il contesto culturale che ne determina la storicità adottandolo nel proprio linguaggio .

AUTOFORMAZIONE DI UN ARCHITETTO

Insegnamento Universitario: i corsi di composizione

Nel decennio 73-83 l’insegnamento consisteva nel seguire le lezioni teoriche del professore incaricato, ordinario e quant’altro: costui si disponeva su una cattedra
e con una bacchetta abbastanza lunga indicava agli studenti le parti dell’edificio proiettato su un schermo a parete che riteneva più importanti e significative. Indicava uno o più “maestri” della trimurti d’architettura Gropius, MiesVanderRohe, le Corbusier.
Lo studente, genericamente arrivato assai digiuno e preoccupato dell’aspetto che avrebbe assunto il suo progetto, capiva da lì come si doveva regolare, a chi si dovesse ispirare (“copiare”).
Le indicazioni potevano variare da corso a corso, da seminario a seminario dello stesso corso, per cui da qualche parte ci si poteva ispirare (“copiare”) in un modo e in qualche altra ispirare in modo sensibilmente diverso.
Con ciò nascevano i partiti con gli studenti di un corso che disdegnavano,
quando non parlassero direttamente male, quelli di un altro. Si faceva la guerra per bande si era fedeli alla tribù ed al capo. Sempre restando fermi tutti i capisaldi.
Tutti gli studenti erano ben disposti nei confronti dei contenuti profferti e nessuno si chiedeva se anche il resto del mondo fosse stato avvertito della “buona novella” del professore: o meglio si pensava che fuori da quelle aule il mondo aspettasse con impazienza il nostro arrivo.

Giovanil Furore

Il concetto di creazione e di creatore di demiurgo ci accompagnava dall’ingresso perché anche la società ne postulava l’esistenza.
Una delle mie più grandi perplessità consisteva nel convincermi che sarei stato pagato per creare, inventare, qualcosa! “Il lato più divertente lo lasciano agli altri!” Questo da una parte rendeva ancora più esclusivo il corso di studi. Negli altri ci si limitava ad applicare delle formule. Qui si creava.

Clientela degli Architetti

Due tipi di architetti: quelli la cui clientela è formata principalmente da parenti
ed amici, che superano con la stima e l’affetto le intemperanze ed i “colpi di genio”, e quelli la cui clientela è indifferente al risultato perché non si tratta di casa propria e quindi non riveste alcuna importanza.

Movimento Moderno

La rivoluzione del movimento moderno ci era stata presentata come un’autentica rivoluzione destinata a soppiantare tutto quanto fosse stato fatto prima che veniva lasciato in piedi solamente perché era troppo costoso buttarlo giù e rifarlo a modo. Gli unici che si ptessero salvare erano le grandi firme del passato che sole,
grazie alla monumentalità ed all’unicità dei risultati, avevano diritto ad una tutela conservativa praticata dalle soprintendenze. Queste sembravano appartenere di più alla sfera delle altre arti figurative che non all’architettura.

Lascito dei maestri

L’eredità che ci lasciano oltre a qualche edificio nei centri storici sono
le interminabili periferie in cui il linguaggio s’è cristallizzato.
Di tutta l’espressività antecedente sono stati ritenuti i tratti più semplici.
È stato fornito un alibi alla deroga dal linguaggio. Sdoganato l’analfabetismo, interrotto il nesso logico che legava una casa alle altre.
Fare una casa moderna vuole e voleva dire fare una casa che non rispondesse ad alcun tipo di sintassi; con lemmi presi da linguaggi anche lontani e rissemblati insieme.
I teorici affermano che comunque il modo di fare la casa non è cambiato di molto.

Edifici moderni

Solai e strutture orizzontali

Tutto sommato il più grosso cambiamento nel modo di costruire: il solaio
diventa rigido e può stare solo lì dove progettualmente disposto.
E diffidi molto difficile aprirci dei vani ed è parte importante della struttura tantoché interrompe la struttura verticale, si affaccia sul prospetto. C'è stato un lungo momento in cui si è evidenziato il solaio in prospetto dagli anni 60 agli 80-90, dopodiché si è cercato di nasconderlo passandoci davanti con un mattone (soprattutto a contenere il ponte termico).

Ponte termico

Ci si è accorti del ponte termico con l’introduzione massiva degli infissi d’alluminio a perfetta tenuta che non facendo passare l’aria dello spiffero non disperdevano l’umidità interna degli ambienti che si condensava irrimediabilmente sulle travi
di bordo a contatto con l’esterno e quindi più fredde.
Dal momento che ciò è divenuto un problema, i costruttori di infissi hanno cominciato ad introdurre delle fessure, sul telaio fisso e sul cassonetto porta avvolgibile, ad introdurre il ricambio d’aria.
Il grande edificio specialistico (teatro, aeroporto, ecc. ecc.) si può porre relativamente questi problemi perché ha un valore simbolico superiore.
Grandi superfici vetrate che divengono un problema per l’irraggiamento solare estivo, alle nostre latitudini, comportano un uso intenso della climatizzazione con relative spese energetiche.

Architetture Moderne Parigine

Temi: gli spazi sprecati (Biblioteca e La villette)
I lunghi percorsi
Le inutili spese ( pavimento in legno della piazza della biblioteca),
Gli alberi in prigione
Le architetture “aliene” (la palla della città della scienza e dell’industria vista evidentemente come una cosa aliena che non fa realmente parte del quotidiano)

Generalmente: non devono avere nulla a che fare con quanto realizzato prima (diciamo gli ultimi duemila anni) perché vogliono rappresentano un mondo diverso… (forse) senza disuguaglianze, tensioni sociali razziali ecc ecc.
Forse le architetture moderne sono fatte per far sentire a proprio agio
gli immigrati... che non si sentono calati in una civiltà ben individuata… Evidentemente gli stessi architetti non si preoccupano di disorientare tutti gli altri espropriati delle loro radici. Come reagiranno gli altri?

La Palazzina di via Campania

Genesi di un capolavoro !
Quando nel 1963 lo studio Passarelli inizia il progetto ha un sito formidabile vicino alle mura aureliane: 1700 anni di attese, assedi, saccheggi, ed altre amenità… di Storia insomma.
Intorno un quartiere borghese con architetture piuttosto curate e significative. Lo spunto non manca. La “sua” ragione d’essere, la “sua” storia sono lì: a due passi.
E invece cosa fa ?
Ha visto su una rivista americana, propalata da un vecchio trombone di recente istallatosi all’università, un edificio di vetro nel bel mezzo di uno svincolo della periferia (.. o del centro, tanto è lo stesso..) di una città americana dal nome impronunciabile.
Folgorato dalla visione come Droctulf : è Amore a prima vista !... “Questa è esattamente la mia patria !, il mio popolo ! la mia Storia ! “…esclama !
Comincia così a tirar su il cubo di vetro cui aggiunge anche un certo stacco da terra per ingannare la banalità (… peggiore incubo dell’architetto moderno !...) nonché s’ingegna a trovare un ritmo dei pannelli perché così, alla semplice, proprio non andavano bene !
A metà dell’opera viene chiamato urgentemente all’estero e si assenta per una quindicina di giorni.
Quanti bastano perché un “diavoletto dispettoso” (.. mister Hayde ?.. pinco panco ?.. ) sovrapponga al suo cubo un’altro oggetto del tutto diverso; a metà strada tra il timber-frame e le pensiline delle pompa di benzina, nega in toto non solo il circostante ( ça va sans dire… quello lo stavano già facendo !..) ma anche quello che c’è sotto: il tutto abbondantemente più alto del contesto.
Alla fine il “prodotto” potrebbe sembrare proprio la caricatura dell’architettura moderna, la critica più feroce ! Tale da destabilizzare un ambiente già fragile e devoto alla confusione.
Ma il vecchio trombone succitato, a cui si aggiungono altri pifferi di rinforzo, la spara grossa gridando al capolavoro
. Qui da noi, ve ne sarete certamente accorti, il buonsenso ha pochi sostenitori e chi ha la faccia tosta ha serie possibilità di farsi credere anche in barba alle evidenze.
Così, in fine, generazioni di architetti con qualche problema d’identità si recano in processione ad omaggiare e lustrare con gli occhi il capo d’opera indicato.
Gli stessi, poi, che si premurano di perpetuare e tramandare ai giovani (.. intatto ed intangibile !..) tale patrimonio; tutto tra una giaculatoria e l’altra della Trimurti ( Gropìus, Le Corvuasier, Misvanderrò ) Però questa è un’altra storia.

Bloomsbury

Quando andai la prima volta a Londra, nel 1991, erano già quasi dieci anni che avevo terminato gli studi.
Capitai, per altri motivi, in un ordinatissimo ed omogeneo quartiere di Londra ottocentesca completamente costruito e rivestito in cotto. Formelle che disegnavano, ordinatamente, ogni elemento della facciate: fondi colonne, cimase, trabeazioni . Tutto insomma.
Anche i locali che si trovavano sotto la linea della strada e che s’intravedevano dietro sontuose cancellate e recinzioni in ghisa parevano qualcosa degno di una dimora civile.
Orbene in mezzo a tutta questa grazia di Dio, questo mirabile esibizione dell’ingegno umano, in un lotto rettangolare e proporzionato come gli altri, vidi l'edificio (... meglio sarebbe dire l'isolato... ),l’oggetto di innumerevoli saggi di architettura contemporanea citato ad esempio da nugoli di docenti più o meno giovani.
Anche io, come tutti, ne avevo subito il fascino.
Bloomsbury a quel tempo era un un importante, capitale, esempio di “vera architettura moderna” a Londra. La nuova regola per riedificare la città.
Il famoso complesso di Bloombury: analizzato, scomposto e ricomposto; disegnato a china; idealizzato in tutti i corsi di composizione della facoltà; imitato in tutti i progetti degli studenti. Qualcosa da riproporre e tramandare intatto ed intangibile; il tabernacolo dell’architettura moderna. Di quanto visto su riviste , raccontato e immaginato non rimanevano che pesanti setti di calcestruzzo, grigio triste, addobbati da improbabili infissi in ferro, bianco "sporcato" , e colate di vetri opacizzati da polvere e smog. La conclamata “grande” intuizione spaziale ( quella di aprirlo su due lati contrapposti) lasciva scorgere gli edifici del quartiere: cosicchè le due colate di c.a. e vetro davano piuttosto l’impressione di uno spazio vuoto i cui marciapiedi si fossero orribilmente sollevati. Un cammeo : incastonato come un foruncolo sul volto di un quartiere veramente mirabile.
La delusione fu cocente. Non mi sono più ripreso.

AVVENTURE MODERNE

L’Architettura di Babele: parafrasi dell’architettura moderna

Pochi sanno che J.L. Borges fu appassionato cultore dell'architettura ed architetto "in pectore" . A tal punto che uno dei più celebri racconti ebbe una prima stesura riferita all'architrettura contemporanea di cui fece esperienza traumatica; tanto da porla al centro del racconto più famoso. In seguito, la preoccupazione, non infondata, di passare per reazionario lo convinsero a trasformarlo ne "la biblioteca universale". Grazie a Maria K. abbiamo avuto modo di leggere e pubblicare qui la prima stesura.

L'universo (che altri chiama l'Architettura) si compone d'un numero indefinito, e forse infinito, di edifici, bordati di basse ringhiere, collegati tra loro da una interminabile rete di strade. Da qualsiasi edificio si vedono gli edifici finitimi, superiori e inferiori, interminabilmente. In un punto dell’edificio passa la scala a spirale, che s'inabissa e s'innalza nel remoto.
Estese superfici specchiate, duplicano fedelmente le apparenze e gli uomini sogliono inferire, da questi specchi, che l'Architettura non è infinita (se realmente fosse tale, perché questa duplicazione illusoria?); io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l'infinito.
Come tutti, in gioventù anche io ho viaggiato; ho peregrinato in cerca di un edificio, di un progetto, forse del catalogo dei progetti; ed ora che i miei occhi quasi non possono decifrare ciò che disegno mi preparo a morire a poche leghe dall'edificio in cui nacqui. Io affermo, perciò, che l'Architettura è interminabile.
Gli idealisti argomentano che gli edifici sono una forma necessaria dello spazio assoluto o per lo meno della nostra intuizione dello spazio.
I mistici, da parte loro, tendono di avere, nell'estasi, la rivelazione d'un’edificio circolare con un gran prospetto continuo che fa il giro completo; ma la loro testimonianza è sospetta; le loro parole, oscure. Questo edificio ciclico è Dio?.
Mi basti, per ora, ripetere la sentenza classica: " La Architettura è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi edificio, e la cui circonferenza è inaccessibile".
Sovente compaiono degli elementi figurativi sulla facciata degli edificii; non, però, che indichino o prefigurino ciò che sarà oltre. So che questa incoerenza, un tempo, parve misteriosa e prima d'accennare la soluzione (la cui scoperta, a prescindere dalle sue tragiche proiezioni, è forse il fatto capitale della storia) voglio rammentare alcuni assiomi.
Primo: L’Architettura esiste ab aeterno.
Di questa verità, il cui corollario immediato è l'eternità del mondo, nessuna mente ragionevole può dubitare. L'uomo, questo imperfetto architetto, può essere opera del caso o di demiurghi malevoli; l'universo, con la sua elegante dotazione di città, di edifici enigmatici, di infaticabili scale, non può essere che l'opera di un dio.
Secondo: Il numero dei simboli architettonici è finito.
Questa constatazione permise, or sono tre secoli, di formulare una teoria generale della Architettura e di risolvere soddisfacentemente il problema che nessuna congettura aveva permesso di decifrare: la natura informe e caotica di quasi tutti gli edifici.
Uno di questi, che mio padre vide in una città del “circuito” quindici novantaquattro,una volta chiamato famigliarmente "Berlino", constava degli elementi Muro Colonna Vetro, perversamente ripetuti dal primo all'ultimo piano.
Un altro (molto frequentato in questa zona) è mero labirinto di elementi, ma l'ultimo piano mostra un timpano. E' ormai risaputo: per un’elemento ragionevole, per una proposizione corretta, vi sono leghe di insensati accostamenti, di farragini e di incoerenze. ( So d'una regione barbarica i cui architetti ripudiano la superstiziosa e vana abitudine di cercare un senso negli edifici, e la paragonano a quella di cercare un senso nei sogni o nelle linee caotiche della mano...
Ammettono che gli inventori del nostro linguaggio architettonico imitarono i simboli naturali, ma sostengono che questa applicazione è casuale, e che gli edifici non significano nulla di per sé.
Questa affermazione, lo vedremo, non è del tutto erronea).
Per molto tempo si credette che questi edifici, impenetrabili, corrispondessero a lingue preterite o remote.
0ra è vero che gli uomini piú antichi, i primi architetti, parlavano una lingua molto diversa da quella che noi parliamo oggi: è vero che poche miglia a destra la lingua è già dialettale, e novanta piani piú sopra è incomprensibile.
Tutto questo, lo ripeto, è vero, ma ennesime ripetizioni di inalterabili
Muro... Colonna... Vetro ...
non possono corrispondere ad alcun idioma, per dialettale o rudimentale che sia.
Altri insinuarono che ogni elemento poteva influire sul seguente, e che il valore di Muro.. Colonna... Vetro.. nella terzo piano non era lo stesso di quello che la medesima serie poteva avere in un altro piano di un altro prospetto; ma questa vaga tesi non prosperò. Altri pensarono ad una crittografia; quest'ipotesi è stata universalmente accettata, ma non nel senso in cui la formularono i suoi inventori.
Cinquecento anni fa, l’architetto di un'edifico superiore trovò un edificio tanto confuso come gli altri, ma con quasi due prospetti omogenei, verosimilmente leggibili.
Mostrò la sua scoperta a un decifratore ambulante, e questo gli disse che erano d'origine gotica ; altri dissero che vi si erano influssi orientali. Si poté infine, dopo ricerche che durarono quasi un secolo, decifrare che si trattava d'un linguaggio vernacolare nippo-romanico del Comelico Superiore, con inflessioni di architettura moresca. Questi esempi permisero a un architetto di genio di scoprire la legge fondamentale della Architettura.
Questo pensatore osservò che tutti gli edifici, per diversi che fossero, constavano di elementi eguali: lo spazio, il vuoto, un numero limitato di simboli ed elementi.
Stabilí inoltre, un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato : non vi sono, nel vasto universo, due soli edifici identici. Da queste premesse incontrovertibili dedusse che l’ Architettura è totale, e che i suoi manuali registrano tutte le possibili combinazioni degli elementi (numero anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò che è dato esprimere, in tutti i linguaggi.
Quando si proclamò che l’ Architettura comprendeva tutti gli edifici, la prima impressione fu di straordinaria felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto.
Non v'era problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non esistesse: in un qualche edificio.
L'universo era giustificato, l'Architettura attingeva bruscamente le dimensioni illimitate della speranza.
A quel tempo si parlò molto delle Vendicazioni: progetti di apologia e di profezia che giustificavano per sempre gli atti di ciascun architetto dell'universo e serbavano arcani prodigiosi per il suo futuro. Migliaia di ambiziosi abbandonarono il dolce edificio natale, spinti dal vano proposito di trovare la propria Vendicazione.
Questi pellegrini s'accapigliavano nelle strade, proferivano oscure minacce, si strangolavano, scagliavano i progetti ingannevoli nei pozzi senza fondo; vi morivano essi stessi, precipitativi dagli uomini di regioni remote.
Molti impazzirono...
Le Vendicazioni esistono (io ne ho viste due, che si riferiscono ad architetti da venire, e forse non immaginari), ma quei ricercatori dimenticavano che la possibilità che un uomo trovi la sua, o qualche perfida variante della sua, è sostanzialmente zero.
Anche si sperò, a quel tempo, nella spiegazione dei misteri fondamentali dell'umanità: l'origine dell’ Architettura e del Tempo. È verosimile che di questi gravi misteri possa darsi una spiegazione in parole: se il linguaggio dei filosofi non basta, la multiforme Architettura avrà prodotto essa stessa l'inaudito idioma necessario, i vocabolari e la grammatica di questa lingua.
Ma già da alcuni secoli,oramai, gli uomini affaticano gli edifici... Vi sono cercatori ufficiali, inquisitori. Li ho visti nell'esercizio della loro funzione: arrivano sempre scoraggiati; parlano di scale senza un gradino, dove per poco non s'ammazzarono; ogni tanto, prendono il progetto piú vicino e lo sfogliano, in cerca di segni infami.
Nessuno, visibilmente, s'aspetta di trovare nulla.
Alla speranza smodata, com'è naturale, successe una eccessiva depressione. La certezza che in un qualche remoto quartiere di qualche città celava edifici preziosi e che questi erano inaccessibili, parve quasi intollerabile.
Una setta blasfema suggerí che s'interrompessero le ricerche e che tutti gli architetti si dessero a mescolare gli elementi costruttivi, fino a costruire, per un improbabile dono del caso, questi edifici canonici.
Le autorità si videro obbligate a promulgare ordinanze severe e la setta sparí, ma nella mia fanciullezza ho visto vecchi uomini che lungamente s'occultavano nelle latrine e debolmente rimediavano al divino disordine.
Altri, per contro, credettero che l'importante fosse di sbarazzarsi delle opere inutili.
Invadevano le città, esibivano credenziali non sempre false, traversavano stizzosamente un quartiere e condannavano complessi interi: al loro furore igienico, ascetico, si deve l'insensata distruzione di milioni di edifici.
Il loro nome è esecrato, ma chi si dispera per i "tesori" che la frenesia di coloro distrusse, trascura due fatti evidenti.
Primo: l’ Architettura è così enorme che ogni riduzione d'origine umana risulta infinitesima.
Secondo: ogni esemplare è unico, insostituibile, ma (poiché l’ Architettura è totale) restano sempre varie centinaia di migliaia di facsimili imperfetti, cioè di opere che non differiscono che per un elemento o per una dettaglio .
Contrariamente all'opinione generale, credo dunque che le conseguenze delle depredazioni commesse dai Purificatori siano state esagerate a causa dell'orrore che quei fanatici ispirarono.
Sappiamo anche d'un'altra superstizione di quel tempo: quella del Magister Architectorum.
In un certa città (ragionarono gli uomini) deve esistere un edificio che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un Architetto l'ha visto, ed è simile a un dio. Nel linguaggio di questa zona si conservano tracce del culto di quell’Architetto remoto; molti peregrinarono in cerca di Lui, si spinsero invano nelle piú lontane contrade.
Ma come localizzare il venerando edificio segreto che l'ospitava ?
Qualcuno propose un metodo regressivo: per localizzare l’edificio A, analizzare previamente i dettagli dell’edifico B; per comprendere l’ edificio B, studiare previamente l’edificio C; e così all'infinito...
In avventure come queste ho prodigato e consumato i miei anni.
Non mi sembra inverosimile, però, che in un certa contrada dell'universo esista un edificio totale; prego gli dèi ignoti che un uomo - uno solo, e sia pure da migliaia d'anni! - l'abbia trovato e l'abbia decifrato.
Se l'onore, la sapienza e la felicità non sono per me, che siano per altri. Che il cielo esista, anche se il mio posto è all'inferno. Ch'io sia oltraggiato e annientato, ma che per un istante, in un essere, la Tua enorme Architettura si giustifichi.
Affermano gli empi che il nonsenso è normale e che il ragionevole (come anche l'umile e semplice coerenza) è una quasi miracolosa eccezione.
Parlano (lo so) della "Architettura febbrile” i cui casuali edifici corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio.
Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia.
In realtà, l’Architettura’ include tutte le strutture, tutte le variazioni permesse dagli elementi architettonici, ma non un solo nonsenso assoluto.
Queste proposizioni, a prima vista incoerenti, sono indubbiamente suscettibili d'una giustificazione crittografica o allegorica; questa giustificazione è verbale, e già figura, ex hypothesi, nell’ Architettura.
Non posso immaginare alcuna combinazione di elementi architettonici
muro, davanzale, mattoni, stipite, finestra
che la divina Architettura non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato.
Ma edificare è, in fine, incorrere in tautologie e questo edificio inutile e farraginoso già esiste in una delle innumerevoli città, in uno degli sconfinati quartieri - e cosí pure la sua confutazione. (Un numero n di lingue possibili usa lo stesso vocabolario; in alcune, l’ Architettura ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di edifici , ma edificio sta qui per pane, o per piramide, o per qualsiasi altra cosa, e per altre cose stanno le dodici che lo definiscono.
(Tu che mi leggi, sei sicuro d'intendere la mia lingua? ) La metodica progettualità , comunque, mi distrae dalla presente condizione degli uomini, cui la certezza di ciò - che tutto sta scritto - annienta o istupidisce.
So di distretti in cui i giovani si prosternano dinanzi agli edifici e ne baciano con barbarie i muri , ma non sanno decifrare un solo elemento.
Le discordie eretiche, le peregrinazioni che inevitabilmente degenerano in banditismo, hanno decimato gli architetti: m'inganneranno, forse, la vecchiezza e il timore, ma sospetto che la specie umana - l'unica - stia per estinguersi, e che l’ Architettura perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di edifici preziosi, inutile, incorruttibile, segreta.
Aggiungo: infinita. Non introduco quest'aggettivo per abitudine retorica; dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito.
Chi lo giudica limitato, suppone che in qualche luogo remoto gli edifici possano inconcepibilmente cessare: ciò è assurdo.
Chi lo immagina senza limiti, dimentica che è limitato il numero possibile dei edifici. lo m'arrischio a insinuare questa soluzione: l’Architettura è illimitata e periodica.
Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi edifici si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l'Ordine).
Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine.

La Sfera di Higgs ovvero il cosmo in cantina

A più di cinquantanni dall'ultima apparizione della sfera,a Buenos Aires, un noto ed autorevole architetto romano ha ripercorso la stessa incredibile esperienza. Ha lasciato queste poche righe che non ci suonano nuove.

La gelida mattina di gennaio   in cui il Maestro morì, dopo una fulminea agonia che gli risparmiò l'inevitabile sentimentalismo ed il fugace timore, notai che le armature di ferro di piazza Colonna avevano cambiato non so quale pubblicità di sigarette; il fatto mi dolse, perché compresi che l'incessante e vasto universo già si separava da lui e che quel mutamento era il primo d'una serie infinita.
Cambierà l'universo ma non io, pensai con malinconica vanità; talora, lo so, la mia vana devozione l'aveva esasperato; morto, potevo consacrarmi alla sua memoria, senza speranza ma anche senza umiliazione.
Pensai che il 20 gennaio era il suo compleanno; andare quel giorno alla casa di via Nomentana per salutare suo moglie e Paolo D., suo nipote, era un atto cortese, incensurabile, forse inevitabile.
Di nuovo avrei atteso nel crepuscolo dell'affollato vestibolo, di nuovo avrei studiato le circostanze delle sue molte immagini.
Il Maestro , di profilo, a colori; Il Maestro , con la farfalla, al congresso dell'APAO nel 1947; la prima cattedra del Maestro ; Il Maestro, il giorno del suo matrimonio con T.C. ; Il Maestro , poco tempo dopo , a un pranzo del Circolo Velico; Il Maestro a Portofino , con Isozaki e S.M ; il maestro , col farfallino donato da L.C.; Il Maestro , di fronte e di tre quarti, sorridente, con la mano al mento .
Non sarei stato obbligato, come in altre occasioni, a giustificare la mia presenza con modeste offerte di libri : libri le cui pagine, alla fine, imparai a tagliare per non constatare, dopo mesi, ch'erano intatti.
Il Maestro mori nel 2000; da allora, non lasciai passare un 20 gennaio senza tornare alla sua casa.
Solevo arrivare alle sette e un quarto e fermarmi un venticinque minuti; ogni anno comparivo un po' più tardi e restavo un po' di più; nel 2006, una pioggia torrenziale mi favorì: dovettero invitarmi a cena.
Profittai, naturalmente, di quel buon precedente; nel 2007 comparvi alle otto suonate, con un torrone di cioccolato, superstite delle festività di natale; con tutta naturalezza rimasi a cena.
Cosi, in anniversari melanconici e vanamente nostalgici, ricevetti le graduali confidenze di suo nipote.
Bruno era snello, fragile, lievemente inclinato; c'era nel suo portamento (se il contrasto è tollerabile) come una gentile goffaggine, un principio d'estasi; Paolo D. è occhialuto, corpulento, calvo, di lineamenti fini. Esercita non so quali "funzioni docenti" in una remota Università del Centro Italia dal nome curioso; è autoritario ma inetto; profittava, fino a poco tempo addietro, delle sere e dei giorni di festa per non uscire di casa.
La sua attività mentale è continua, appassionata, versatile e del tutto insignificante. Abbonda in inservibili analogie e in oziosi scrupoli.
Per alcuni mesi patì l'ossessione di Jean Nouvel, non tanto a causa delle realizzazioni quanto dell'idea d'una progetto impeccabile. "È il Principe degli architetti di Francia," ripeteva con fatuità. "Invano ti volgerai contro di lui; non lo raggiungerà, no, la più avvelenata delle tue frecce."
Il 20 gennaio del 2008 mi permisi di aggiungere al torrone una bottiglia di cognac locale. Paolo D. lo assaggiò, lo giudicò notevole e intraprese, dopo alcuni  bicchierini,  una  esaltazione dell'uomo contemporaneo.
"Lo evoco," disse con inesplicabile animazione, nella “sua” casa-studio , come a dire nella “ centrale di controllo” del “ suo” ambiente della “sua” città, munito di telefoni, di computer, di antenne paraboliche, di schermi sottilissimi a parete ed a pavimento, di proiettori 3d , giardini coperti, microclimi computerizzati, facciate autoventilanti, vetri auto pulenti, frigoriferi intelligenti, tende auto chiudenti e così via.
Osservò che per un uomo tanto fornito l'azione di muoversi e viaggiare era inutile; il nostro secolo XXI aveva capovolto la favola di Maometto e della montagna; le montagne, ora, venivano al moderno Maometto.
Tanto inette mi parvero quelle idee, cosi pomposa e vana la loro esposizione, che le posi immediatamente in relazione all’architettura; gli chiesi perché mai non le inserisse nei progetti . Com'era da prevedere, rispose che lo aveva già fatto: quei concetti, e altri non meno originali, figuravano nella sua ultima fatica alla quale aveva lavorato e lavorava ancora da anni, senza pubblicità, senza stamburate assordanti, sempre appoggiato a quei due bastoni che si chiamano lavoro e concentrazione. Prima apriva le porte all'immaginazione; poi faceva opera di lima.
Il progetto si chiamava Tiburtina 2000 ; si trattava di una estesissima stazione ferroviaria, “vaga allusione” alla città, nella quale non mancava davvero il dettaglio sofisticato o la realistica rappresentazione nonche la citazione gagliarda.
Lo pregai di mostrarmene una parte, anche piccola.
Apri un cassetto della scrivania, ne trasse un grosso fascio di fogli sui quali era impresso "Biblioteca Università di Pescara" ed illustrò con sonora soddisfazione alcuni render, piante e prospetti che illustravano l’accesso principale.
"Particolare indubbiamente interessante, " sentenziò. "Il primo impatto si assicura l'applauso del professore, dell'accademico, se non degli eruditi tuttologi, un settore considerevole dell'opinione; passando da Michelangelo a Le Corbusier (tutto un implicito omaggio, sulla facciata del lucente edificio, al padre dell’architettura moderna), non senza ringiovanire un procedimento che ha la sua origine nella Scrittura, l'enumerazione, congerie o accumulazione; il secondo — barocchismo, decadentismo, culto depurato e fanatico della forma ? — consta di due padiglioni gemelli scopertamente decostruttivisti, mi assicura l'appoggio incondizionato d'ogni spirito sensibile ai liberi suggerimenti dell'umore giocoso. Nulla dirò della metodologia, né della cultura che mi permette — senza pedanteria — di accumulare in pochi elementi tre allusioni erudite che abbracciano trenta secoli di densa architettura. Mi persuado sempre più che l'architettura moderna esige il balsamo dello scherzo, dell’incertezza ! Decisamente, ha la parola Derrida!"
Mi illustrò molte altre parti del progetto, che ottennero anch'esse la sua approvazione e il suo profuso commento.
Nulla di memorabile era in esse; non le giudicai neppure molto peggiori della prima. Alla loro stesura avevano collaborato l'applicazione, la rassegnazione ed il caso; le virtù che Paolo D. attribuiva loro erano posteriori.
Compresi che il lavoro dell’architetto non consisteva nella architettura, ma nell'invenzione di ragioni perché l’architettura fosse ammirevole; naturalmente, questo lavoro successivo modificava l'opera per lui, ma non per gli altri.
La grafica di Paolo D. era bizzarra; la sua goffaggine gl'impedì, salvo pochi casi, di trasmettere quella bizzarria al progetto .
Mi mostrò certi laboriosi passi della zona servizi del suo progetto; le lunghe e tediose travi d’acciaio e cavi armonici mancavano del relativo momento dell'appoggio.
"Vere e proprie audacie," gridò esultando, "riscattate, t'odo bofonchiare, dal risultato!
Lo ammetto, lo ammetto. Una, il disegno ripetitivo delle travi, che abilmente denuncia, en passant, l'inevitabile tedio inerente alle parte strutturale , tedio che nemmeno il nostro ormai consacrato Renzo P.  ha mai osato denunciare così, al rosso vivo. L'altra, l'energico prosaismo , che lo schizzinoso vorrà scomunicare con orrore, ma che il critico di gusto virile apprezzerà più della sua vita.
Tutto il progetto , d'altronde, è d'alta qualità.
La copertura, poi, intavola un'animatissima conversazione col fruitore ; precede la sua viva curiosità, instilla una domanda e la soddisfa... all'istante.
E che mi dici di questo vitreo schermo trasparente ? II pittoresco neologismo suggerisce il cielo, che è un fattore importantissimo del paesaggio italiano.
Senza quell'evocazione, le tinte del progetto risulterebbero troppo cupe e il fruitore sarebbe costretto ad abbandonare il luogo, l'anima ferita nel più intimo da incurabile e nera malinconia." Verso la mezzanotte mi congedai.
Due domeniche dopo, Paolo D. mi chiamò per telefono, credo per la prima volta nella sua vita.
Mi propose che ci incontrassimo alle quattro "per prendere insieme una tazza di the , nell'attiguo cocktail-bar che il progressismo di Zunino — il proprietario della mia casa, come ricorderai — inaugura all'angolo; è un locale che t'interesserà conoscere." Accettai, con più rassegnazione che entusiasmo.
Ci riuscì difficile trovare un tavolo; il "cocktail-bar," inesorabilmente moderno, era appena un po' meno atroce delle mie. previsioni; ai tavoli vicini, il pubblico eccitato menzionava la somma spesa senza lesinare da Zunino.
Paolo D. finse di stupirsi di non so quali bellezze nell'installazione della luce (che, senza dubbio, già conosceva) e mi disse con qualche severità: “Tuo malgrado dovrai riconoscere che questo locale regge al confronto dei più trendy di N.Y. " Mi illustrò, poi, quattro o cinque nodi del progetto già mostrati in precedenza .
Li aveva rielaborati secondo un pervertito principio di ostentazione: dove prima aveva posto dei semplici quasi banali pulvini d’imposta, ora abbondava in mensole sagomate a scarpa e forate a disegno. Le balconate continue non erano abbastanza brutte per lui; nell'impetuosa descrizione dell’ edificio passeggeri preferiva ballatoi e passerelle...
Rimproverò con amarezza i critici; poi, più benigno, li paragonò a quelle persone "che non dispongono di metalli preziosi né di presse, laminatoi e acidi solforici per coniare tesori, ma che possono indicare agli altri il luogo di un tesoro." Subito dopo censurò la mania delle citazioni. Ammise, tuttavia, che sul prospetto principale dell'opera nuova era opportuna la citazione dell’architetto di grido.
Compresi, allora, il singolare invito telefonico; voleva inserire una citazione da una mia opera nella sua pedantesca farragine.
Il mio timore risultò infondato: Paolo D. osservò, con ammirazione astiosa, che non credeva di sbagliare aggettivo qualificando solido il prestigio conquistato da Renzo P., il quale, se io l'avessi contattato , avrebbe visto con piacere la citazione nel progetto.
Per evitare il più imperdonabile degl'insuccessi, io dovevo farmi portavoce dei suoi due meriti inconcussi: la perfezione formale e il rigore scientifico, "giacché questo esteso giardino di metafore, di figure, di eleganze, non tollera un solo particolare che non confermi la severa verità."
Aggiunse che al Maestro Renzo P. era sempre piaciuto.
Assentii con profusione. Precisai, per dare maggior verosimiglianza alla cosa, che avrei parlato con Renzo non il lunedì, ma il giovedì, alla piccola cena che suole coronare tutte le riunioni del Commissione Tecnica Ministeriale. (Non esistono queste cene, ma è innegabile che le riunioni si tengono il giovedì, fatto che Paolo D. poteva verificare nei giornali e che dotava di una certa realtà la frase.)
Dissi, tra dubbioso e consapevole, che prima di abbordare il tema della citazione avrei descritto il curioso piano del progetto.
Ci congedammo; nell'imboccare via Nomentana, esaminai con tutta imparzialità le eventualità che mi si offrivano:
a) parlare con Renzo e dirgli che quel nipote di Bruno Z. (tale eufemismo esplicativo mi avrebbe permesso di nominarlo) aveva elaborato un progetto che pareva estendere all'infinito le possibilità dell’arbitrio e del caos;
b) non parlare con Renzo.
Previdi, lucidamente, che la mia indolenza avrebbe scelto la seconda.
A partire dal venerdì di buon'ora, il telefono cominciò a darmi preoccupazione.
M'indignava che quello strumento che un giorno aveva prodotto l'irrecuperabile voce del Maestro, potesse abbassarsi a far da ricettacolo alle inutili e forse colleriche lagnanze dell'ingannato Paolo D..
Fortunatamente, non accadde nulla — se si toglie il rancore inevitabile che m'ispirò quell'uomo che mi aveva imposto un incarico delicato e poi mi dimenticava.
Il telefono perdette il suo alone di terrore, ma alla fine di febbraio Paolo D. mi chiamò all'apparecchio. Era agitatissimo; in un primo momento, non riconobbi la sua voce.
Con tristezza e con ira balbettò che quello smisurato di Zunino, col pretesto di ampliare il suo mostruoso cocktail-bar, voleva demolire la sua casa.
Non mi fu difficile condividere la sua afflizione. Passati i quarant’anni, ogni mutamento è un simbolo detestabile del passare del tempo; inoltre, si trattava di una casa che, per me, alludeva infinitamente a Bruno Z..
Volli chiarire quella delicatissima sfumatura; il mio interlocutore non mi ascoltò. Disse che se Zunino persisteva nel suo assurdo proposito, il dottor Pecorini, suo avvocato, l’avrebbe querelato, ipso facto, per danni, e l’avrebbe obbligato a pagare un milione di euro.
Il nome di Pecorini mi fece impressione; il suo studio, è d'una serietà proverbiale. Chiesi se l'avvocato avesse già assunto l'incarico. Paolo D. disse che gli avrebbe parlato in giornata. Esitò, e con quella voce piana, impersonale, alla quale siamo soliti ricorrere per confidare qualcosa di molto intimo, disse che la casa gli era indispensabile per terminare il progetto, perché in un angolo della cantina c'era una sfera di Higgs. Spiegò che una sfera di Higgs è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti. "Si trova sotto la stanza da pranzo," spiegò, la dizione resa più veloce dalla pena. "È mia, è mio; la scoprii da bambino, prima che andassi a scuola. La scala della cantina è ripida, gli zii mi avevano proibito di scendervi, ma qualcuno aveva detto che c'era un mondo in cantina. Si riferivano, come seppi in seguito, a un baule, ma io capii un mondo. Scesi di nascosto, rotolai per la scala vietata, caddi. Quando aprii gli occhi, vidi la sfera di Higgs. "
"La sfera di Higgs?" ripetei. "Sì, il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli.
Non rivelai a nessuno la mia scoperta ma vi tornai ancora. Il bambino non poteva supporre che quel privilegio gli era accordato perché l'uomo portasse a perfezione la sua disciplina! Non mi spoglierà Zumino ! No, mille volte no! Codice alla mano, il dottor Pecorini proverà che la mia Sfera di Higgs è inalienabile."
Cercai di ragionare: "Ma non è buia la cantina? "
"La verità non penetra in un intelletto ribelle. Se tutti i luoghi della terra si trovano nell'Sfera di Higgs, vi si troveranno tutti i lumi, tutte le lampade, tutte le sorgenti di luce."
"Vengo subito a vederla."
Interruppi la comunicazione, prima che potesse vietarmelo.
Basta conoscere un fatto per avvertire immediatamente una serie di segni che lo confermano, prima insospettati; mi stupì non aver capito fino a quel momento che Paolo D. era pazzo.
Tutti quei Z., d'altronde... Bruno (io stesso soglio ripeterlo) era un uomo d'una chiaroveggenza quasi implacabile, ma c'erano in lui negligenze, distrazioni, disdegni, vere crudeltà, che forse richiedevano una spiegazione patologica.
La pazzia di Paolo D. mi colmò di maligna felicità; intimamente, ci eravamo sempre detestati.
In via Nomentana, la cameriera mi disse di avere la bontà di attendere. Il bambino si trovava, come sempre, in cantina, a sviluppare fotografie. Vicino al vaso senza un fiore, sul pianoforte inutile, sorrideva (più intemporale che anacronistico) il grande ritratto di Bruno Z. , dipinto con goffi colori.
Paolo D. entrò poco dopo. Parlò con secchezza; compresi che non era capace d'altro pensiero che della perdita della sfera .
"Un bicchierino di pseudo-cognac," ordinò, "e ti tufferai in cantina. Come sai, il decubito dorsale è indispensabile. Lo sono anche l'oscurità, l'immobilità, un certo adattamento dell'occhio.
Ti sdrai sul pavimento di mattonelle e fissi lo sguardo sul diciannovesimo gradino della scala.
Me ne vado, chiudo la porta e resti solo. Qualche roditore ti farà paura, ci vuoi poco! Dopo pochi minuti vedrai la sfera di Higgs.
Il microcosmo di architetti e cabalisti, il nostro concreto amico del proverbio, il “multum in parvo".
Nella stanza da pranzo, aggiunse:"Naturalmente, se non lo vedi, la tua incapacità non invalida la mia testimonianza... Scendi; in breve potrai intavolare un dialogo con tutte le immagini di Bruno."
Scesi sveltamente, stanco delle sue sciocchezze.
La cantina, poco più larga della scala, somigliava molto a un pozzo.
Con lo sguardo, cercai invano il baule del quale Paolo D. mi aveva parlato. Alcune casse con bottiglie e alcuni sacchi di tela occupavano un angolo. Paolo prese un sacco, lo piegò e lo dispose in un punto.
"Il guanciale è umile," spiegò, "ma se lo alzo d'un solo centimetro non vedrai nulla e rimarrai confuso e vergognoso. Sdraia in terra questo corpaccio e conta diciannove scalini."
Seguii le sue ridicole istruzioni; finalmente se ne andò. Chiuse cautamente la botola; l'oscurità, nonostante una fessura che in seguito distinsi, mi parve totale.
Improvvisamente compresi il pericolo che correvo: m'ero lasciato sotterrare da un pazzo, dopo aver bevuto un veleno. Le bravate di Paolo D. svelavano l'intima paura ch'io non vedessi il prodigio; per difendere il suo delirio, per non sapere che era pazzo, doveva uccidermi.
Sentii un confuso malessere, che volli attribuire alla rigidità, e non all'effetto d'un narcotico. Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi la sfera di Higgs.
Arrivo, ora, all'ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di architetto.
Ogni linguaggio architettonico è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gl'interlocutori condividono; come trasmettere agli altri le sensazioni trasmesse dall'infinita sfera di Higgs, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia? Forse gli dèi non mi negherebbero la scoperta d'una immagine equivalente, ma questa relazione resterebbe contaminata di letteratura, di falsità.
D'altronde, il problema centrale era insolubile : l'enumerazione, sia pure parziale, d'un insieme infinito di linguaggi e simboli architettonici. In quell'istante gigantesco, ho visto milioni di edifici gradevoli o atroci; nessuno di essi mi stupì quanto il fatto che tutti occupassero lo stesso punto, senza sovrapposizione e senza trasparenza. Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò che trascriverò, successivo, perché tale è il linguaggio. Qualcosa, tuttavia, annoterò.
Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vicino ad un insolito "mattone storto" vidi un piccolo punto luminoso che per l’oscurità si dilatava fino a raggiungere la dimensione di due o tre cm. proprio davanti ai mie occhi; di colore cangiante, di intollerabile fulgore.
Dapprima credetti pulsasse; poi compresi che quel movimento era un'illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che esso racchiudeva. Lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse.
Ogni cosa ogni dettaglio era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell'universo.
Vidi, l'alba e la sera succedersi su orizzonti di tegole e cupole di piombo, vidi gli edifici e le popolose città della Cina , Vidi un'argentea ragnatela al centro d'una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era New York), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi in un cortile interno di viale Mazzini le stesse mattonelle che trent’anni prima avevo viste nell'andito di una casa di via del Pigneto; vidi tegole, pietre , finestre, vene di metallo, vapor d'acqua; vidi terree e convesse città occidentali e ciascuno dei loro mattoni, vidi un cerchio di terra secca in un sentiero, dove prima era un albero; vidi in una casa di Torino un esemplare della prima versione inglese di Palladio, vidi contemporaneamente ogni mattone di ogni edificio: vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, vidi un tramonto a valle Giulia che sembrava riflettere il colore di una rosa nel Bengala, vidi un tecnigrafo Galliano, vidi in un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere incredibili, precise, che Bruno Z: aveva dirette a Paolo D. vidi un'adorata tomba al Verano, vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stato in vita Bruno Z.,vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi la sfera di Higgs, vidi nella sfera di Higgs la terra e le città e nella terra di nuovo la sfera e nella sfera la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l'oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha compreso appieno : l'inconcepibile Universo e la sua Architettura .
Sentii infinita venerazione, infinita pena.
"Sarai rimasto di stucco, per aver curiosato tanto dove non ti spetta” disse una voce aborrita e gioviale. "Per quanto ti stilli il cervello, non mi pagherai in un secolo questa rivelazione. Che osservatorio formidabile, eh Memmo! "
I piedi di Paolo D. occupavano lo scalino più alto. Nell'improvvisa penombra, riuscii ad alzarmi e a balbettare:"Formidabile. Si, formidabile. "
L'indifferenza della mia voce mi sorprese.
Ansioso, Paolo D. insisteva: "L'hai visto bene, coi colori? "
In quell'istante concepii la mia vendetta. Benevolo, manifestamente  impietosito,  nervoso,  evasivo,  ringraziai Paolo D. per l'ospitalità nella cantina e gli suggerii di profittare della demolizione della casa per allontanarsi dalla perniciosa metropoli, che non risparmia nessuno, credimi, nessuno!
Mi rifiutai, con dolce energia, di parlare della sfera ; lo abbracciai, nel congedarmi, e gli ripetei che la campagna e la tranquillità sono due grandi medici.
Per la via, per le scalinate dei Monti Parioli, sull'autobus, tutti gli edifici mi parvero familiari. Temetti che non fosse rimasta una sola cosa capace di sorprendermi, temetti che non mi avrebbe più abbandonato quell'impressione di tornare a tutte le cose.
Fortunatamente, dopo alcune notti d'insonnia, mi vinse di nuovo l'oblio.
Poscritto del primo novembre del 2007 — Sei mesi dopo la demolizione dell'edificio di via Nomentana, la rivista Lotus, senza lasciarsi intimorire dalla dimensione del progetto, pubblicò un numero speciale con una selezione di "architetti italiani."
È superfluo ripetere quel che accadde in seguito: Paolo D. si classificò secondo al Premio Prizker .
Il primo fu dato a Libeskind; il terzo, ad Hadid ; incredibilmente, la mia opera non ottenne un solo voto.
Una volta di più, trionfarono l'incomprensione e l'invidia!
È già molto tempo che non riesco a vedere Paolo D.; i giornali dicono che presto ci darà un altro prova del suo genio . La sua fortunata mano (non più turbata dal sfera di Higgs) s'è consacrata a realizzare le visionarie folgorazioni ed invarianti di Bruno Z.
Voglio aggiungere un’osservazione sulla natura della sfera di Higgs.
La sua applicazione all'ambito della mia storia non sembra casuale. Per la fisica, questa sfera rappresenta l'En Soph, l'illimitata e pura divinità; la caratteristica speculare sta a significare che il mondo inferiore è specchio e mappa del superiore; il simbolo dei numeri transfiniti, nei quali il tutto non è maggiore di alcuno dei componenti.
Quel che vorrei sapere è: Paolo D. scelse lui quel nome, o lo lesse, applicato a un altro punto nel quale convergono tutti i punti, in uno degl'innumerevoli edifici ed oggetti architettonici che la Sfera della sua casa gli rivelò?
Per quanto sembri incredibile, io credo che ci sia (o che ci sia stato) un'altra sfera di Higgs , io credo che quella di via Nomentana fosse una falsa Sfera .
Dò le mie ragioni.
Leon Max Lederman poliedrico scienziato-filosofo e premio Nobel, in una sua recente ricerca storico-bibliografica sulla Sfera di Higgs, riferisce dello specchio che l'Oriente attribuisce a Iskandar Zu al-Karnayn, o Alessandro Bicorne di Macedonia.
Nel suo cristallo si rifletteva l'universo intero.
Lederman menziona altri artifici consimili — la coppa di Kai Josrù, lo specchio che Tarik Ben-zeyad trovò (Mille e una notte, 272), lo specchio che Luciano di Samosata potè vedere nella luna (Storia vera, I, 2j6), la lancia che il primo libro del Satyricon di Capella attribuisce a Juppiter, lo specchio universale di Merlino, "rotondo e cavo e somigliante a un mondo di vetro" (The Faerie Queene, III, 2, 19) — ed aggiunse queste curiose parole: "Ma i precedenti (oltre al difetto di non esistere) sono meri strumenti d'ottica. I fedeli che si recano alla moschea di Amr, al Cairo, sanno bene che l'universo è racchiuso nell'interno di una delle colonne di pietra che circondano il cortile centrale... Nessuno, certo, può vederlo, ma chi accosta l'orecchio alla superficie afferma di percepire, dopo un po', il suo incessante rumore...” La moschea è del secolo VII; le colonne provengono da altri templi di religioni preislamiche, giacché come ha scritto Aben-jaldun: Nelle repubbliche fondate da nomadi, è indispensabile l’opera di forestieri per quanto è arte muraria. Esiste codesta sfera di Higgs all'interno d'una pietra? L'ho visto quando vidi tutte le cose, e l'ho dimenticato?
La nostra mente è porosa per l'oblio; io stesso sto deformando e perdendo, sotto la tragica erosione degli anni, il ricordo di Bruno Z..

La Regola Segreta

Agli inizi degli anni '60 il colpo di grazia alla facoltà di Valle Giulia: in nome di una modernità da vetrinisti ed acconciatori furono isolati e messi in condizione di non operatività, privati del rapporto fecondo con gli studenti quei pochi architetti e pensatori che avevano intuito e cominciato ad indagare scientificamente i rapporti tra civiltà, territorio ed architettura. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.Mancò la fortuna non il valore.

L’ufficio è profondo e di cemento armato; la sua forma, quella di un cubo perfetto, ed il pavimento (anch'esso di cemento armato) è un po' più grigio delle pareti e del soffitto, il che aggrava in qualche modo i sentimenti di oppressione e di vastità.
Un muro lo taglia a metà; esso, benché sia altissimo, non tocca il soffitto.
Da un lato sto io, Saverio M., ordinario del corso di composizione architettonica dell’università di R. , che Bruno Z. distrusse ; dall'altro in un angolo totalmente buio e senza finestre un marmoreo modello, dettagliatissimo, della città di R.
Così esteso e dettagliato da potervi scorgere particolari indicibili ed inavvertibili nella realtà.
Un’asola munita di un cristallo blindato taglia il muro all’altezza degli occhi. Due tre volte al giorno, per cambiare l’aria si apre in alto una botola. La luce che entra in quell’istante mi permette di vedere il modello altrimenti totalmente buio.
Ho perduto il conto degli anni che giaccio in quest’orribile cubo di c.a.; io, che una volta ero giovane e potevo camminare a testa alta per i corridoi della facoltà , non faccio altro che aspettare, seduto al tavolo dell'ufficio la mia fine.
Io, che a gesso e carboncino ho schizzato complessi edifici ed intere città alla lavagna, ora, a malapena, riesco a sgorbiare qualche pavido segno sul moleskine.
Qualche giorno prima dalla riforma e dell’occupazione gli "affamati" ed inferociti assistenti scesero in corteo dalla città universitaria perché abiurassi .
Abbatterono, davanti ai miei occhi le immagini dell’architettura classica e della cultura che la produsse; ma questa non mi abbandono e io rimasi silenzioso fra le beffe. Mi misero alla berlina, mi derisero, lacerarono i miei progetti ed i mie appunti, mi privarono del conforto dei miei assistenti; mi indicarono a torme di studenti in delirio.
Infine, quando non costituivo più un pericolo, magnanimi, mi permisero di continuare a vivere e lavorare, in questo orribile cubo di cemento; isolato, senza un vero ruolo, senza un obiettivo né studenti a cui insegnare.
Mestamente ricominciai invisibile come un fantasma, in questo ufficio, che non lascerò più nella mia vita mortale. Spinto dalla necessità di far qualcosa, di popolare in qualche modo il tempo, volli ricordare, nella mia ombra, tutto ciò che sapevo. Giorni interi consumati a ricordare e disegnare l'ordine e il numero di certe colonne di pietra o la forma di una chiesa.
Così andai debellando gli anni; così rientrai in possesso di quanto era già mio.
Un giorno sentii che mi avvici­navo a un ricordo prezioso; così come prima di vedere il ma­re, il viaggiatore avverte un'agitazione nel sangue. Ore più tardi, cominciai ad avvistare il ricordo; era una degli attributi dell’architettura .
I nostri padri, prevedendo che alla fine dei tempi sarebbero occorse molte sventure e rovine, scrissero agli albori della civiltà una regola , atta a scongiurare quei mali. La scrissero in modo che giungesse alle più remote generazioni e che non la toccasse il caso.
Nessuno però ricordava più, ormai, in quale punto l'avessero scritta né con quali caratteri; ma consta che perdura, segreta, e che la leggerà un eletto.
Considerai che eravamo, come sempre, alla fine dei tempi e che il mio destino di ultimo, vero, ordinario della Facoltà di Architettura mi riserbava il privilegio di decifrare quella scrittura . Il fatto che un ufficio di calcestruzzo mi circondasse per la maggior parte del tempo non vietava tale speranza; forse io avevo sfiorato migliaia di volte “il vero significato”, la regola segreta dell’architettura e non dovevo che capirla.
Questa riflessione mi animò e poi mi dette una specie di vertigine.
Nell'ambito della terra esistono forme antiche, forme incorruttibili ed eterne; una qualunque di esse poteva essere il simbolo che cercavo. Una edificio poteva essere il senso: o un fiume o l'impero o la configurazione degli astri.
Ma nel corso dei secoli gli edifici mutano e il percorso di un fiume suole mutare, gl'imperi conoscono cambiamenti e la figura degli astri varia.
Cercai qualcosa di più tenace, di più invulnerabile. Forse nel mio volto era scritta la formula, forse io stesso ero il fine della mia ricerca. Ero in questo travaglio quando ricordai che "il modello" era uno dei cardini dell’architettura.
Allora la mia anima si riempi di pietà. Immaginai i mie avi mentre affidavano il messaggio al monumento, che sarebbe stato custodito dalle generazioni affinché gli ultimi lo ricevessero. Nell’ altro ufficio era un modello monumentale in scala della città di Roma imperiale: nella sua vicinanza ravvisai una conferma della mia supposizione e un segreto favore.
Dedicai così lunghi anni a imparare l'ordine e la dislocazione e degli edifici rappresentati. Ogni cieca giornata mi concedeva fugaci istanti di luce, e cosi potei fissare nella mia mente le polverose forme che costituivano il modello. Alcune racchiudevano spazi conclusi; altre formavano spazi aperti; altre, a disegno concentrico, si ripetevano.
Forse erano uno stesso suono o una stessa parola.
Non dirò la stanchezza della mia fatica. Spesso gridai ai muri che era impossibile decifrare quella norma. Gradatamente l'enigma concreto che mi occupava m'inquietò meno che l'enigma generale di una sentenza tramandata da una cultura.
Quale tipo di regola - mi chiesi - sarà stata costruita da una civiltà sedimentata ?
Considerai che anche nei linguaggi umani, come nell’architettura, non c'è proposizione che non implichi l'universo intero; dire la tigre è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò, il pascolo di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu madre del pascolo, il cielo che dette luce alla terra.
Considerai che nel linguaggio di una architettura ogni elemento, ogni dettaglio, deve enunciare questa infinita concatenazione dei fatti, e non in modo implicito ma esplicito, non progressivo ma immediato. Con il tempo, l’idea di una simile enunciazione mi parve puerile o empia. Un civiltà autocosciente, riflettei, deve elaborare solo "una" norma, "un" fatto, un solo insieme coerente di segni architettonici, e in quello la pienezza. Nessun dettaglio articolato da questa può essere inferiore all'universo o minore della somma del tempo. Ombre o simulacri di quella voce, che equivale a un linguaggio, sono gli ambiziosi e poveri luoghi costruiti dall’uomo,la città, il mondo, l’universo.
Un giorno o una notte - tra i miei giorni e le mie notti, che differenza c'è? - sognai che sul pavimento dell'ufficio c'era un granello di sabbia. Mi riaddormentai, indifferente; sognai che mi destavo e che i granelli di sabbia erano due. Mi riaddormentai; sognai che i granelli di sabbia erano tre. Si andarono così moltiplicando fino a colmare l’ufficio e io morivo sotto quello scatolone di sabbia.
Compresi che stavo sognando; con un grande sforzo mi destai. Fu inutile; l'innumerevole sabbia mi soffocava. Qualcuno mi disse: Non ti sei destato alla veglia ma ad un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro, e così all'infinito, che è il numero dei granelli di sabbia. La strada che dovrai percorrere all'indietro è interminabile e morrai prima di esserti veramente destato.
Mi sentii perduto. La sabbia mi rompeva la bocca, ma gridai: Una sabbia sognata non può uccidermi, né ci sono sogni che stiano dentro sogni.
Uno splendido raggio di luce mi destò. Nella tenebra sopra di me si librava cerchio di luce.
Vidi il pesante lucernaio che si apriva, la polvere che filtrava la luce ed il modello impolverato.
Un uomo si confonde, gradatamente, con la forma del suo destino; un uomo è, alla lunga, ciò che lo determina.
Più che un decifratore o un vendicatore, più che un sacerdote dell’architettura, io ero un impiegato.
Dall'inesauribile labirinto di sogni tornai, come a una casa, al duro ufficio. Benedissi la sua umidità, benedissi il modello, benedissi il ministro e la luce, benedissi il mio vecchio corpo dolente, benedissi l’oscurità ed il cemento armato. Avvenne allora quel che non posso dimenticare e comunicare. Avvenne l'unione con l'Universo con l'Architettura, (..non so se queste parole differiscono...).
L'estasi non ripete i suoi simboli; c'è chi ha visto Dio in una luce, c'è chi lo ha scorto in una spada o nei cerchi di una rosa.
Io lo vidi in un portico altissimo, che non stava avanti ai miei occhi né dietro né ai lati, ma in ogni parte a un tempo. Quel portico era fatto di acqua, ma anche di fuoco, e (..benché si vedesse il tetto..) era infinito. Intrecciate fra loro, lo formavano tutte le cose che saranno, che sono e che furono, ed io ero uno dei fili di quella trama totale, e Bruno Z., che mi fece tormentare, era un altro.
Li erano le cause e gli effetti e mi bastava vedere quel portico per comprendere tutto, senza fine.
Oh gioia di comprendere, maggiore di quella di operare o di sentire.
Vidi l'universo e vidi gl'intimi disegni dell'universo. Vidi le origini che narra Vitruvio. Vidi le montagne che sorsero dall'acqua, vidi i primi uomini ed i rozzi templi in legno. Vidi le mura d’argilla delle prime città , vidi i templi che divenivano lentamente di pietra. Vidi il dio senza volto che sta dietro gli dèi. Vidi gli infiniti processi che formavano una solo edificio e, comprendendo ormai tutto, potei anche capire la norma, il modello e la città.
E’ una enunciazione di quattordici elementi casuali (…che sembrano casuali…) e mi basterebbe pronunciarla ad alta voce per essere onnipotente.
Mi basterebbe dirla per abolire questo ufficio di cemento armato, perché il giorno invadesse la mia notte, per essere giovane e immortale, perché il ministro rimuova gli epigoni di Bruno Z., per ricostruire la città e la civiltà.
Quaranta righe; quattordici elementi, e io, Saverio M., governerei le città immaginate e progettate dai miei maggiori. Ma so che mai dirò quelle parole, perché non mi ricordo più di Saverio .
Muoia con il me il mistero che è scritto nel modello.
Chi ha scorto l'universo, non può pensare a un uomo, alle sue meschine gioie o sventure, anche se quell'uomo è lui. Quell'uomo è stato lui e ed ora non gl'importa più.
Non gl'importa la sorte di quell'altro, non gl'importa la sua azione, poiché egli ora è nessuno. Per questo non pronuncio la formula, per questo lascio che i giorni mi dimentichino, seduto serenamente alla mia scrivania.

L'urbanistica a Babilonia

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Come tutti gli architetti di Babilonia, sono stato progettista; come tutti, assessore; anche ho conosciuto l'onnipo­tenza, l'obbrobrio, le carceri. Guardino: per questo strappo del faldone si vede sul mio curriculum un bollo vermi­glio: è il secondo simbolo, la delega della Soprintentenza . Le legislature pari questa simbolo mi conferisce potere sugli ingegneri il cui marchio è Autorità di Bacino, ma mi subordina a quelli del Consiglio Superiore dei LL.PP. che nelle legislature dispari debbono obbedienza a quelli dell’Autorità di Bacino.
Sul crepuscolo del mattino, in un ufficio denso di nicotina, ho approvato fumosi piani interregionali dinanzi a gonfie borse di pelle. Per tutto un anno della legislatura, sono stato dichiarato invisibile: gridavo e non mi rispondevano, rubavo incarichi e non mi denunciavano. Ho conosciuto ciò che ignorano i greci: l'incertezza. In una aula di tribunale, davanti alla silen­ziosa scrittura del giudice, ho avuto speranza; nel fiume dei denari, paura.
Eraclide Pontico riferisce con ammirazio­ne che Pitagora ricordava d'essere stato Pirro, e prima di lui Euforbo, e ancor prima un qualche altro mortale: per ricordare vicissitudini analoghe, io non ho bisogno di ri­correre alla morte, né all'impostura.
Debbo questa varietà quasi atroce a un'istituzione che altre repubbliche ignorano, o che opera in esse in modo imperfetto e segreto: l'Urbanistica.
Non ho indagato la sua storia; so coloro che ne ragionano non sono giunti a un accordo; so dei suoi scopi poderosi ciò che può saper della luna l'uomo non versato in astrologia.
So di un paese vertiginoso dove l'Urbanistica è l'unica parte concreta della vita: fino ad oggi, pensai cosi poco ad essa come alla condot­ta degli dèi indecifrabili o del mio cuore.
Ora, lontano da Babilonia e dai suoi costumi che amo, penso con qualche stupore alla sua Urbanistica, e alle congetture blasfeme che mor­morano nel crepuscolo gli uomini velati.
Mio padre raccontava che anticamente - anni addietro? Secoli ? - essa fu a Babilonia un attitudine di carattere spontaneo. Diceva (se sia vero non so) che politici distratti, a caccia perenne di denaro e consenso, distribui­vano, in cambio di moneta sonante, rettangoli di carta ornati di simboli. La distribuzione si faceva di giorno: i favoriti ricevevano, senz'altra convalida del favore o del caso, piccoli e grandi incarichi pubbliche e prebende, estese concessioni edilizie, ampi stralci, ed anche varianti generali di PRG.
Come vedono, il procedi­mento era elementare.
Naturalmente, queste distribuzioni fallirono. La loro vir­tù morale era nulla. Non si rivolgevano a tutte le facoltà dell'uomo: solo alla sua speranza ed alla sua astuzia. Aumentando l'indifferenza del pubblico, gli "affaristi" che avevano fondato queste operazioni venali cominciarono a perdere il loro denaro.
Qualcuno tentò una riforma: l'interpolazione di poche sorti avverse tra il numero di quelle favorevoli.
In virtù di questa riforma, gli acquirenti di rettangoli numerati di carta si mettevano al duplice azzardo di ritirare un permesso od una prebenda e di pagare una multa a volte ingente. Questo tenue rischio (per ogni trenta concessioni favorevoli ve n'era uno disgraziata) risvegliò, com'è naturale, l'interesse degli operatori .
Gli architetti di Babilonia si dettero in massa a questo gioco. Chi non acquistava benefici era considerato un pusillanime, un dappoco. Col tempo, questo disprezzo crebbe a includere non solo quelli che non giocavano, ma anche quelli che avendo partecipato, e perduto, si rassegnavano alla conciliazione dell' ammenda.
Il Comitato (cosi si cominciò allora chiamarlo) dovette vegliare sugli interessi dei vincitori, che non potevano ritirare incarichi e prebende se mancava nelle casse l'importo quasi totale delle multe. S'intentarono processi ai perditori che non pagavano: il giudice li condan­nava al pagamento della multa e delle spese, o a qualche giorno di carcere. Tutti, pur di defraudare il Comitato, optarono per il carcere e la multa.
Da questa bravata di alcuni nac­que l'onnipotenza del Comitato: il suo valore eccle­siastico, metafisico.
In poco tempo, gli albi pretori finirono per o­mettere la lista delle multe e si limitarono a elencare i giorni di prigione relativi a ciascun numero avverso.
Que­sto laconismo, che passò allora quasi inavvertito, fu di importanza capitale. Fu la prima apparizione nella "lotteria" urbanstica di elementi non pecuniari.
Il successo fu grande. Su insi­stenza dei giocatori, il Comitato si vide costretto ad ac­crescere la proporzione delle sorti avversi.
È noto che il popolo di Babilonia è molto devoto alla logica, e anche alla simmetria. Era illogico che i favori si computassero in semplici benefici e gli infausti in giorni e notti di carcere. Alcuni moralisti osservarono che ciò non sempre determina la felicità, ed esservi, forse, forme più dirette della fortuna.
Un'altra inquietudine s'allargava nelle categorie più lontane dall'argomento. I membri del Comitato moltiplicavano i benefici e godevano di tutte le vicissitudini del terrore e della spe­ranza; gli esclusi (con invidia ragionevole, e comunque ine­vitabile) si vedevano esclusi da questo va e vieni, notoria­mente delizioso.
Il giusto desiderio che tutti gli operatori del settore partecipassero egualmente all’Urbanistica, promosse u­n'agitazione indignata, la cui memoria non s'è cancellata ancora.
Alcuni ostinati non compresero (o finsero di non comprendere) che si trattava di un ordine nuovo, di una necessaria tappa storica ...
Un geometra “rubò” un foglio cremisi, che nel sorteggio lo designò per la demolizione della casa appena costruita. Il codice prevedeva la stessa pena per chi violava una concessione edilizia. Alcuni babilonesi argomentarono che colui me­ritava il fio nella sua qualità di ladro; altri, magnanimi, che il giudice doveva applicarglielo poiché così aveva vo­luto l'Urbanistica ...
Vi furono tumulti, effusioni deplorevoli di tangenti; ma la gente di Bahilonia impose finalmente la sua volontà, contro l'opposizione degli addetti ai lavori. Il popolo conse­guì appieno i suoi fini generosi.
In primo luogo, ottenne il trasferimento al Comitato di tutti i poteri legislativi. (Questa unificazione era necessaria, data la vastità e com­plessità delle nuove operazioni). In secondo luogo, ottenne che la distribuzione fosse segreta, gratuita e universale. Fu abolita la vendita mercenaria dei benefici. Iniziato ai miste­ri dell’Urbanistica, ogni tecnico del settore partecipava automaticamente ai sacri decreti che si facevano nei labirinti dell’amministrazione ogni sessanta notti, e che determinavano il suo destino fino al nuovo esercizio.
Le conseguenze erano incalcolabili.
Una giocata fortunata poteva bastare per entrare nel concilio del Comitato, o per mandare in prigione un nemico (notorio o intimo), o per incontrare, nella calma oscurità della pro­prio studio, la società edilizia che comincia a inquietarci e che non speriamo di ricontattare; una disposizione avversa, invece, poteva significare l’ostracismo, l'infamia, la morte.
A volte un fatto solo – l’assessore rimosso da C, l'apoteosi misteriosa di B - era la soluzione geniale di trenta o quaranta disposizioni legislative.
Combinare le sorti ed incarichi era difficile; ma bisogna ricordare che gli uomini del Comitato erano (e sono) onnipotenti e astuti. Molte volte, il sapere di certe felicità che erano semplice fattura del caso, avrebbe potuto diminuirne l'efficacia; per evitare quest'inconveniente, gli agenti del Comitato usavano di suggestioni e del controllo mediatico-politico.
I loro passi, i loro maneggi, erano segreti. Per scoprire le intime speranze e gli intimi terrori di ciascuno, dispo­nevano di politici professionisti e di spie. V'erano certi piloni di calcestruzzo, v'era una discarica segreta chiamata Qaphqa, v'erano certe crepe in un viadotto polveroso che, secondo l'opinione generale, davano sulla Comitato; gente maligna o benevola depositava delazioni in questi luoghi. Un archivio alfabetico raccoglieva queste informazioni di varia atten­dibilità.
Incredibilmente, non mancarono mormorazioni. Il Comitato, con la sua abituale discrezione, non replicò direttamente. Preferì sgorbiare sulle rovine d'una fabbri­ca dismessa un argomento breve, che ora figura nelle scritture sacre. Questo scritto dottrinale osservava che l’ Urbanistica è un'interpolazione del caso nell'ordine del mon­do, e che accettare errori non è contraddire al caso, ma corroborarlo. Osservava pure che quei piloni e quel reci­piente sacro, anche se non sconfessati dal Comitato (che non rinunciava al diritto di consultarli), funzionavano senza garanzia ufficiale.
Questa dichiarazione calmò le inquietudini degli uomini.
Produsse anche altri effetti, forse non previsti dall'autore. Modificò profondamente lo spirito e le operazioni del Comitato.
Non mi resta che poco tempo; m'avver­tono che l’aereo sta per imbarcare; ma cercherò di spiegarmi.
Per inverosimile che appaia, nessuno aveva ancora tentato una teoria generale dell’Urbanistica.
Il babilonese è poco speculativo. Accetta i dettami del caso, gli affida la propria vita, la propria speranza, il proprio terrore, ma non gli accade di investigare le sue leggi labirintiche, le sfere giratorie che le rivelano. Tuttavia, la dichiarazione ufficio­sa cui ho accennato ispirò molte discussioni di carattere giuridico-matematico, e da una di esse nacque la proposta seguente: « Se la Urbanistica è una intensifìcazione del caso, una periodica infusione del caos nel cosmo, non converrebbe fare intervenire il caso in tutte le fasi della vita, e non in una sola? Non è ridicolo che il caso detti il declino di qualche città o territorio e che le circostanze di questa morte - pubblica o segreta, immediata o ritardata d'un secolo - non siano anch'esse soggette alla Pianificazione ? »
Questi scrupoli, troppo giusti, provocarono finalmente una sostanziale riforma, le cui complessità (aggravate da un esercizio di secoli) non s'intendono che da pochi, ma che cercherò tuttavia di riassumere, anche se in modo simbolico.
Immaginiamo un primo sorteggio, che detti la distruzione di un territorio agricolo od un brano urbano. Per l'esecuzione, si procede a un altro decreto, che proporrà - diciamo - nove esecutori possibili. Di questi esecutori, quattro potranno passare a una terza disposizione che dirà il nome del carnefice, due potranno sosti­tuire all'ordine avverso un ordine felice (diciamo, la scoperta d'una area archeologica), un altro potrà rendere la fine più acerba (facendola infame, o arricchendola di demolizioni e sbancamenti), altri potranno rifiutarsi di darla ...
Tale è lo schema simbo­lico. In realtà, il numero dei decrete e disposizioni è infinito.
Nessuna decisione è finale, tutte si ramificano in altre.
Gli ignoranti suppongono che infinite decisioni richiedano un tempo infinito; basta, in realtà, che il tempo sia infinitamente divisibile, come insegna la famosa parabola della Gara con la Tartaruga.
Questo tipo di infinitezza si addice ammirevolmente ai sinuosi numi del Caso e all' Archetipo Celeste dell’ Urbanistica, adorato dai platonici ...
Si hanno anche sorteggi impersonali, di proposito inde­finito: uno decreta che si costruisca nelle acque della Laguna un ponte di vetro; un altro, che sul tetto d'una tor­re si istalli un’antenna; un altro, che ogni secolo si tolga (o si aggiunga) un granello di rena ai grani innumerevoli della spiaggia. Le conseguenze, a volte, sono tremende.
Sotto l'influsso benefico della Comitato, le nostre città sono sature di caso e di contraddizioni. L'acquirente d'una dozzina di lotti edificabili non si meraviglia se uno di essi contiene un una falda superficiale; lo scrivano che re­dige un contratto d’appalto non lascia quasi mai di introdurvi qual­che dato erroneo; io stesso, in questa affrettata esposizio­ne, ho falsato qualche splendore, qualche atrocità ... E anche, forse, qualche misteriosa monotonia ...
I nostri urbanisti, che sono i più perspicaci dell'orbe, hanno inventato un metodo per correggere il caso; si dice che le operazioni di questo metodo siano (in generale) fededegne; sebbene, naturalmente, non si divulghino senza una certa dose di inganno. Peraltro, nulla è più contaminato di falsificazione che la storia del Comitato ...
Un documento paleografico, esumato in un archivio, può essere opera di una urgente decretazione di ieri, o d'un arbitrio di un secolo fa. Non si pubblica Testo Unico o Regolamento Edilizio senza qualche divergenza tra ciascuno di essi; gli urbanisti prestano giuramento segreto di omettere, di interpolare, di variare. Anche si esercita la menzogna indiretta.
Il Comitato, con modestia divina, evita ogni pubblicità. I suoi agenti, com'è naturale, sono segreti; i comandi ch'essa impartisce incessantemente (forse infinitamente) non differiscono da quelli che s'arrogano gli impostori. D'altra parte, chi potrà vantarsi d'essere un mero impostore? L'ufficio tecnico che improvvisa un'ingiunzione assurda, il concessionario che si sveglia di colpo e s'addossa all'edificio che gli giace a fianco, non c'è il caso che eseguano una decisione segreta del Comitato?
Questo funzionamento silenzioso, comparabile a quello di Dio, provoca ogni sorta di congetture. Una, abominevolmen­te, insinua che già da secoli il Comitato ha cessato d'esistere, e che il sacro disordine delle nostre città è pura­mente ereditario, tradizionale; un'altra lo giudica eterno e insegna che durerà fino all'ultima notte, quando l'ultimo urbanista annullerà il mondo. Un'altra afferma che il Comitato è onnipresente, ma che solo influisce sulle cose minuscole: sul materiale di un cancello, su una sfumatura nel colore degli edifici e della polvere, sui sogni incerti dell'alba. Un'altra, per bocca di eresiarchi mascherati, che non è mai esistita e mai esisterà. Un'altra, non meno vile, ragiona che è indifferente affermare o negare la realtà della tenebrosa corporazione, poiché Babilonia, essa stessa, non è altro che un infinito gioco d'azzardo.